In occasione dell’uscita in libreria di Città amara, romanzo di culto e classico della letteratura sulla boxe, da cui è stato tratto nel 1972 il fortunato film di John Huston, ne pubblichiamo un estratto.
La sicurezza, secondo Ruben Luna, era l’ingrediente indispensabile del successo e lui ne aveva in abbondanza: era sicuro del suo destino, come pure degli atleti che allenava. Negli anni in cui ancora combatteva, aveva avuto dei dubbi, che in certi periodi erano degenerati in terrore. Costretto al silenzio dalla mandibola bloccata, aveva succhiato cibi liquidi da una cannuccia, chiedendosi perfino se fosse pazzo. Dopo un sonoro pestaggio, dopo aver urinato sangue nello spogliatoio, si era domandato se i gloriosi combattimenti e i grandi compensi in cui aveva sperato, e che non erano arrivati mai, potevano giustificare tutto quello che aveva sopportato. Ma adesso la sua volontà era una luce pura e incrollabile, che ardeva perfino nel sonno. Più che convinzione, la sua, era ottimismo fatalistico; ora che erano i ragazzi a combattere, Ruben, se non dall’ansia, era immune dalla disperazione. Non dovendo più dipendere dalle sue proprie capacità, godeva di un vantaggio che, da pugile, non aveva mai avuto. Sapeva di poter durare nel tempo. Ma i suoi ragazzi erano meno affidabili. C’era chi si allenava un giorno e se ne prendeva due di riposo, chi combatteva una volta e poi mollava, chi perdeva il ritmo, tornava, si rimetteva in forma, e poi annaspava, si sbracciava a vuoto e finiva al tappeto, chi vinceva un sacco di incontri e poi si sposava, o si trasferiva, o si arruolava, chi finiva in marina o andava in galera, chi sanguinava troppo facilmente, chi soffriva di mal di testa, chi ci vedeva doppio, chi si rompeva una mano. Molti scoprivano di non essere tagliati per la boxe e altri, senza spiegazioni, smettevano semplicemente di farsi vedere in palestra, e Ruben non li vedeva mai più, anche se ogni tanto gli riapparivano in sogno, e lui continuava a dargli indicazioni, come se gli anni non fossero passati.
Col suo solito sorriso remissivo, Ruben si adoperava per infondere loro tutta la sua fiducia. Certe volte proprio non riusciva a mettere un freno alle lodi, e alle prospettive di gloria, che gli uscivano dalla bocca come ringraziamenti, ed era consapevole di esagerare; ma un pugile, si ripeteva, ha bisogno di qualcuno che creda in lui, e se davvero la sicurezza era garanzia di vittoria, allora non era mai abbastanza.
Quella sera, mentre accompagnava Ernie Munger lungo il corridoio dell’Oakland Auditorium, Ruben prevedeva la vittoria. Il ragazzo aveva vinto gli ultimi tre incontri – ai punti a Watsonville e Santa Cruz, e per KO a Modesto, dove il suo avversario, in realtà, era rimasto vittima dei suoi stessi sforzi, più che dei colpi ricevuti. Ora, sotto quel gran soffitto, in mezzo a quella folla immensa, a un evento annuale sponsorizzato dal Dipartimento di Polizia di Oakland, Ruben non era più sulle spine. Pensava solo a mantenere la sua posizione, a rimanere sempre al fianco di Ernie, agli scalini che stava salendo per raggiungere il ring e alle corde che doveva aprire, sedendosi su quella di mezzo, per consentire a Ernie e Babe di passare. Mentre si sbracciava, dando ordini e indicazioni precisi, sentì di essere al massimo della forma, e riconobbe quell’entusiasmante sensazione di pienezza, travolgente eppure controllata, che gli era capitato di provare occasionalmente e che pensava corrispondesse al suo vero sé. Sorridendo, tamponò le sopracciglia di Ernie e gli spalmò una striscia di vaselina lungo il naso largo e ammaccato, dispiaciuto che fosse così deturpato, ma convinto che in fondo fosse stato meglio togliersi il pensiero subito, dato che qualcuno, prima o poi, gliel’avrebbe comunque rotto. Ora, almeno, non doveva più preoccuparsi di proteggerselo.