La città dove tutti raccontano di Juan Gabriel Vásquez

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Pubblichiamo l’introduzione di Juan Gabriel Vásquez a Río Fugitivo di Paz Soldán, apparsa su Tuttolibri La Stampa sabato 31 gennaio 2015.

 

Nella generazione di Edmundo Paz Soldán, parlare del boom latinoamericano è come parlare della corda a casa dell’impiccato. Paz Soldán è nato nel 1967, come Cent’anni di solitudine e I cuccioli, e, al pari dei suoi coetanei – fra i quali si trovano nomi importanti come Alberto Fuguet e Rodrigo Fresán –, ha trascorso metà della vita adulta a esprimere opinioni riguardo Vargas Llosa, García Márquez, Cortázar, Fuentes. Ma mentre la maggior parte di quei coetanei ha optato per l’opposizione al boom, e talvolta per il semplice anonimato, Paz Soldán sembra credere che, come dicono i terapisti di coppia, tutto si risolva dialogando. E a questo si è dedicato in buona parte della sua opera letteraria: a cercare forme di dialogo con la migliore tradizione latinoamericana, a partire da Borges. Dal suo primo libro di racconti (Las máscaras de la nada, 1990) fino al suo ultimo romanzo (Iris, 2014), l’opera di Paz Soldán è un generoso inventario di ammiccamenti, di complicità, di – perdonate la parolaccia – intertestualità. Non solo non lo infastidisce che gli si parli delle possibili influenze del boom nei suoi libri: pare che Paz Soldán cerchi questi paragoni in maniera attiva e, beninteso, piuttosto azzardata. In quest’ottica, non stupisce trovare fra i suoi racconti titoli che alludono a Borges, come ‘Las ruinas circulares”, o a Cortázar, come ‘Continuidad en los parques” e ‘Casa tomada”, e non è nemmeno strano che questi racconti riproducano molto più del titolo: frasi, interi paragrafi dei testi originali ricompaiono in quelli di Paz Soldán, come se ci trovassimo davanti a una sorta di reincarnazione, in scala ma senza complessi, di Pierre Menard. Dal canto loro, i romanzi non ammettono tanto facilmente il gioco testuale, ma ciò non vuol dire che non siano ugualmente abili nell’arte del dialogo. Perché ecco, nessuno dialoga tanto quanto Río Fugitivo, che per molti aspetti si può considerare un tentativo – forse il migliore della sua generazione – di costituire un punto di svolta nel romanzo latinoamericano sull’adolescenza, di giocare con le convenzioni e i cliché che ci ha lasciato una delle grandi narrazioni della nostra tradizione: La città e i cani.

Come La città e i caniRío Fugitivo è, un po’ suo malgrado, un romanzo di formazione; come La città e i caniRío Fugitivo si sviluppa attorno a un delitto e racconta di un’indagine fra adolescenti, di un rappresentante dell’autorità – in Vargas Llosa, i militari; in Paz Soldán i preti – che non è come tutti gli altri, e ha una conclusione da romanzo morale più che da romanzo nero; come La città e i caniRío Fugitivo è incentrato su un narratore di storie: Alberto nel romanzo madre e Roberto nell’erede trafficano con racconti e lettere, li vendono o li regalano ai loro compagni, li utilizzano per scopi più o meno sovversivi (Alberto scrive romanzetti pornografici; Roberto volantini rivoluzionari). La filiazione è accettata volentieri dal romanzo di Paz Soldán, o almeno dal suo narratore: «‘Sarai il nostro Vargas Llosa”, mi diceva, e io ero onorato. Vargas Llosa era il mio mito, volevo scrivere della Bolivia come lui scrive del Perù». Per il resto, il passaggio dell’adolescenza ha i tratti che già conosciamo tutti: il sesso onnipresente, la sperimentazione di diverse forme di perdita della coscienza – dall’alcol alla cocaina –, la vita familiare come un campo minato che bisogna percorrere muniti di metal detector. E se il collegio Leoncio Prado del romanzo di Vargas Llosa era un microcosmo sociale del Perù, il Don Bosco di Paz Soldán è l’esatto contrario: un piccolo mondo elitario, uno di quegli acquari della borghesia latinoamericana che ben conoscono i lettori di Un mondo per Julius o No meesperen en abril. In quel mondo insoddisfacente e conflittuale, in quella scatola di cristallo che è un apprendistato del pregiudizio, in una di quelle famiglie privilegiate che passano la vita a diffidare della democrazia e ad attendere l’arrivo del prossimo dittatore, vive Roberto, fanatico lettore di romanzi gialli e aspirante scrittore, cosa che in questo romanzo significa plagiario. Vive, ho detto, ma forse sarebbe più preciso dire che sopravvive. Perché per Roberto, come nel romanzo di Kundera, la vita è altrove. A Cochabamba c’è la prosaica realtà; la vita vera è a Río Fugitivo, e non è la vita che viviamo, ma quella che raccontiamo.
Come la Santa María di Onetti, la città fittizia di Río Fugitivo nasce dall’insoddisfazione. «Un fiume dalle acque cristalline, nessun mendicante sotto il ponte, lavoro per tutti e stipendi alti, i militari nelle loro caserme, le università efficienti, lavagne di quarzo e computer in ogni postazione, l’inflazione a zero e le famiglie felici», scrive Roberto. È la città che ha inventato perché il suo detective Mario Martínez, erede di Auguste Dupin e di Sherlock Holmes e di Hercules Poirot, risolva i delitti che si trova per le mani. «Una città per Mario Martínez, sì, e anche molti delitti per lui, ma questi, che sono solo isole dell’inquietudine nel calmo mare della vita, finiscono sempre per risolversi, a Río Fugitivo regna l’ordine». È l’antico cliché del romanzo giallo: il delitto spezza l’ordine, e al detective tocca ristabilirlo. Ma, nel caso di Paz Soldán, è anche molto più di questo: Roberto non è solo un adolescente che cerca, attraverso la letteratura, la propria collocazione nel mondo; è anche un adolescente che comprende il mondo attraverso le storie, qualcuno per cui gli altri acquisiscono un significato completo solo in quanto narratori. E il fatto è che non c’è tratto più noto – e più notevole – in questo romanzo, della naturalezza, diremmo quasi la sfrontatezza, con cui tutti, ma veramente tutti, si relazionano con il verbo raccontare. Io racconto, tu racconti, lui racconta, tutti raccontano. E per Roberto contano solo nella misura in cui raccontano. Mi spiego?
Il nonno: «Mi piace il suo modo così intenso di raccontare le storie. Come se ogni volta fosse la prima, come se il racconto stesse accadendo nel momento stesso della narrazione». Camaleón aveva un «talento invidiabile nel raccontare storie, nel trasformare un bacio sulla guancia da parte di una ragazza in un torrido fine settimana nella Cabaña de la Torre (era un gran narratore, ma soprattutto un gran bugiardo)». Chino racconta che suo fratello, in punto di morte, stava ascoltando una cassetta di Celia Cruz. «Trent’anni dopo mi sarei dimenticato della storia», dice Roberto, «ma avrei continuato a ricordare quel dettaglio. Chino è un grande narratore». Con un simile elenco, sembrerebbe superflua la presenza di un personaggio chiamato il Relator, e invece eccolo: «Va di bar in bar nella notte di Cochabamba, raccontando barzellette e aneddoti della sua terra per guadagnarsi da vivere». Roberto ascolta tutti e inevitabilmente li giudica; davanti a tutti loro (e agli altri), esercita il ruolo di lettore e di critico, perché la realtà, per lui, è un libro aperto. Río Fugitivo è, fra le molte altre cose, un romanzo sul rapporto tra letteratura e vita, sul modo di interpretare la vita a partire dalla letteratura e sui problemi e le difficoltà e i malintesi e le assurdità e le frustrazioni e le disfatte che si trova ad affrontare chi fa così. E in questo compito i suoi risultati sono eccellenti: scrivere sullo scrivere implica correre rischi monumentali, e la strada della letteratura latinoamericana è lastricata con i danni della metaletteratura. Per questo devo dire che non c’è nulla di metaletterario nel romanzo di Paz Soldán, in cui leggere e scrivere racconti sono gli unici modi efficaci di indagare sulla nostra identità, di scoprire chi siamo e anche – prospettiva terrificante – chi siamo stati senza saperlo.
Come ogni romanzo degno di tale nome, Río Fugitivo appartiene a più di un genere: è un romanzo giallo, o una parodia delle convenzioni del giallo, ma anche un romanzo d’iniziazione in grande stile come Il grande Meaulnes (con il carico di sesso e morte necessario per qualunque rito di passaggio), ed è anche un romanzo politico di chiaro stampo sudamericano, nonché, infine, un romanzo sulla ricerca delle origini. Uno dei temi più ricchi del romanzo è l’indagine, da parte di Roberto, sulla vita di un antenato che si era potuto dedicare al mestiere, sempre malvisto, di scrivere libri. Fino a che punto ereditiamo l’ossessione per un mestiere, fino a che punto è scritta nei nostri geni una vocazione? In effetti, fino a che punto qualsiasi cosa è scritta nei nostri geni? La domanda, si renderà conto il lettore, porta con sé uno dei grandi temi della letteratura: il libero arbitrio. «L’ereditarietà era un mistero, forse il mistero più grande che ci era toccato in sorte», ci dice Roberto a un certo punto del romanzo. «Cercavamo enigmi intorno a noi, senza renderci conto che il mistero più grande era radicato in quella stravagante combinazione di frammenti di altri esseri umani di altri tempi».
Alla soluzione di questi enigmi è dedicato Río Fugitivo.
Da un lato, il metafisico chi sono.
Dall’altro, il poliziesco chi è stato.
In mezzo alle due domande c’è un romanzo stupendo.

Traduzione di Valentina Bortolamedi

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