Come sono arrivato all’isola dei femminielli

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Aldo Simeone racconta la nascita di L’isola dei femminielli, il suo nuovo romanzo appena arrivato nelle librerie.

 

È il dicembre del 2013. Sfogliando «Focus storia», m’imbatto in un articolo che mi colpisce. Prima del titolo, è l’apparato iconografico a catturare la mia attenzione. In bianco e nero, su tre quarti della doppia pagina iniziale, campeggia un collage di fotografie. Due uomini danzano abbracciati. Alle loro spalle, lo scorcio di un’isola, sul cui sfondo se ne staglia un’altra. Uno dei due giovani guarda dritto verso l’obiettivo. Un’espressione indefinita: appena un’accigliatura. È stato distolto nel mezzo di una conversazione. I suoi occhi incrociano quelli dell’osservatore. L’altro ragazzo, giovanissimo, è ritratto di schiena, ma con la testa girata di profilo. È abbandonato alla musica, gli occhi chiusi. Le loro sagome sono state ritagliate rimuovendo lo sfondo. Perciò non mi è dato di conoscere il contesto. Lo scoprirò più avanti: altre coppie di uomini danzano lo stesso lento. Siamo nel 1955, venti anni dopo i fatti di cui riferisce l’articolo, in un luogo diverso. Eppure, a distanza di altri settant’anni, anche oggi l’immagine appare conturbante. Colpevolmente, mi spinge a fermarmi e affrontare la lettura.

L’articolo parla del confino degli omosessuali durante il regime fascista.

Non ho ancora scritto il mio primo romanzo, Per chi è la notte. Sto cercando una storia da raccontare. Una storia che mi provochi e mi riguardi. Per me è questo lo stimolo necessario: come in un gioco enigmistico, unire i puntini di un nugolo informe per trarne un disegno.

Penso che in quella sola fotografia ci sia già un potenziale narrativo.

Decido di procurarmi il libro che ha fatto da fonte all’articolo: La città e l’isola, di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, pubblicato da Donzelli nel 2006.

Che il regime fascista abbia criminalizzato gli omosessuali condannandoli al confino non mi è ignoto. Anni prima ho visto il film Una giornata particolare di Ettore Scola, con Mastroianni e Loren. Non sapevo, invece, che esisteva una colonia specifica di soli “pederasti” – come li chiamavano all’epoca: l’isola di San Domino delle Tremiti. Nell’ignoranza e nel pregiudizio del tempo, si credeva che l’omosessualità fosse un vizio contagioso, un po’ malattia un po’ perversione. In controtendenza rispetto alla natura stessa del confino, che mirava a disperdere sul territorio i soggetti ritenuti pericolosi per il regime, i “pederasti” vennero riuniti insieme. Fu la prima comunità omosessuale della storia. Per paradosso, dalla segregazione fascista sarebbe potuto nascere qualcosa di diverso: un piccolo mondo alternativo e inclusivo.

Ma non ce ne fu il tempo. Nel 1940, con l’ingresso dell’Italia in guerra, il fascismo sgomberò la colonia omosessuale per fare spazio ai confinati politici di San Nicola (tra cui i nomi illustri di Mario Magri e Sandro Pertini). Si disperse così la breve esperienza – dolorosa, ma potenzialmente rivoluzionaria – dei freak di San Domino, costretti a vivere in miseria, accalcati in baracche senza elettricità né riscaldamento né acqua corrente né servizi igienici, umiliati nella violazione del pudore, costretti alla fame e alla noia; e tuttavia “liberi” di mostrarsi com’erano, chi erano, di ballare abbracciati, di vestirsi da donna, di scherzare sul sesso, di scambiare battute maliziose con i carabinieri, di farsi riconoscere. Liberi, soprattutto, di incontrarsi e innamorarsi, consapevoli di sé e della propria diversità.

«In fondo… si stava meglio là che qua», dirà molti anni dopo uno dei reduci. «Ai tempi miei se eri femmenella non potevi manco uscire fuori di casa; non ti potevi far notare, sennò la questura ti arrestava».

“Femminielli” li chiamavano gli isolani nel dialetto di Foggia, influenzato dal napoletano. “Arrusi” si dicevano loro, perché in grandissima maggioranza erano siciliani. Il più efficiente persecutore di “pederasti” fu infatti il questore di Catania Alfonso Molina. Nel tentativo di risolvere un giallo avvenuto la sera del 15 ottobre 1937, piuttosto che identificare l’assassino scelse di condannare decine e decine di “colpevoli”. Circa cinquanta persone, per lo più giovani e giovanissimi. Aveva scoperto un giro di “serate omosessuali”. Niente d’insolito nell’Italia pre-fascista e fino ai primi anni Trenta. Purché non se ne parlasse e non la si desse a vedere, l’omosessualità aveva un suo spazio di relativa tolleranza. Fu con la trasformazione della dittatura in totalitarismo che s’inasprì la persecuzione anti-omosessuale.

Nel dopoguerra, l’avvento della Repubblica e della Costituzione significarono un salto all’indietro, in quella tolleranza “omertosa”, anziché in avanti: si smise di ritenere la diversità un crimine e tuttavia si smise anche di parlarne, di volerla vedere, conoscere, comprendere. L’omosessualità tornò a essere un tabù, a nascondersi nella vergogna.

Sono tanti gli aspetti di questa vicenda che m’incuriosiscono e interrogano: il cono d’ombra in cui è stata a lungo relegata, il giallo ancora da risolvere per fare vera giustizia, l’opportunità d’indagare (attingendo agli archivi di Stato) le vicende private di persone comuni e al contempo “eccezionali”, lo scenario geografico e leggendario delle isole Tremiti. È in queste circostanze che il romanzo storico acquista più senso e valore: come strumento non solo di memoria, ma di vivificazione.

Nel 2013, tuttavia, non ho la forza né le capacità per avventurarmi in un’impresa narrativa così temeraria. Un romanzo storico! Ne sono spaventato. Quanto bisogna studiare, leggere, documentarsi per risultare almeno verosimili, se non veritieri? Rispettosi. Per non colonizzare il passato con la mentalità del presente.

Interrompo le ricerche. Passo ad altro. Scrivo di streghi, di boschi e di paura.

«Nessuno entra due volte nello stesso fiume», ha scritto Eraclito. «Perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è la stessa persona». Quando torno a interessarmi ai femminielli (è l’autunno del 2020), si è richiuso il silenzio sulla loro storia. Dopo l’articolo di Arianna Pescini, l’unica nuova pubblicazione sul tema (benché riferita al confino in Lucania) è il libro fotografico di Cristoforo Magistro Adelmo e gli altri. I documentari di Gabriella Romano (Ricordare e Baci rubati) e il fumetto di Luca de Santis e Sara Colaone (In Italia sono tutti maschi) risalgono entrambi ai primi anni Duemila. A distanza di un decennio, l’esperienza eccezionale di San Domino resta ignota ai più, piena di lacune.

Con un’eccezione. C’è qualcuno, adesso, che si è preso la briga di aprire gli archivi e fotografare tutti i documenti superstiti relativi ai confinati siciliani di San Domino. È la fotografa Luna Rigolli, con il reportage L’isola degli arrusi. Ha restituito i volti ai nomi dei perseguitati, e i nomi reali ai nomignoli femminili che loro stessi si davano. Ha recuperato i verbali, le suppliche, immortalato i luoghi di provenienza e di confinamento.

È grazie a lei se finalmente riesco a “immaginare” una storia nella Storia, e figurarmi i femminielli, il modo in cui ridono e litigano e piangono e conversano, a ipotizzare i fili che li aggrovigliano.

E tuttavia mi manca ancora qualcosa per iniziare a scrivere: un punto di vista che possa fare mio, una voce che sappia gestire senza tradirne il tono. Mi serve un osservatore toscano, il cui orizzonte di conoscenze e abitudini e idiotismi possa condividere senza infingimenti.

Lo trovo tra le pagine di La città e l’isola. Neanche a farlo apposta, Goretti e Giartosio per tutelarne la privacy gli hanno dato il mio nome: Aldo. È fiorentino. Entra nella vicenda da un ingresso secondario: non appartiene al gruppo degli arrusi e, a distanza di anni, le sue prime parole sono una dichiarazione di estraneità: «Io non ero buco» (si noti: al passato). Dopo la guerra ha preso moglie, messo su famiglia. Eppure, è tra i pochi a rendersi disponibili per un’intervista; non si nega, non rinnega del tutto la propria ombra.

Benché di lui non abbia altre notizie, né dettagli biografici, né documentazione fotografica, sebbene non ne conosca il nome reale né il volto, lo scelgo come protagonista del romanzo. Anzi, proprio per questo. Aldo sono io, trascinato in una vicenda che mi riguarda e mi esclude. Aldo siamo noi, oggi. Aldo sei tu, lettore.

 

Aldo Simeone

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