«Evelina» di Fanny Burney: il commento della traduttrice Chiara Vatteroni

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Burney Evelina

In occasione della pubblicazione di Evelina, la traduttrice Chiara Vatteroni ci racconta qualche curiosità sull’autrice e sul romanzo.

 

Abbiamo fatto la conoscenza di una delle “madri del romanzo”, secondo la definizione di una storica della letteratura femminile tra le più appassionate e fervide, l’australiana Dale Spender. Mothers of the Novel si intitola infatti un suo volume dedicato a tutte quelle scrittrici che hanno contribuito a fare la storia del romanzo inglese, ma che sono scomparse dai canoni letterari o che sono relegate in una nota a piè di pagina o arbitrariamente contrapposte ad altri scrittori (maschi) solo per sottolineare le loro presunte carenze.

Fanny (Frances) Burney per esempio. Apriamo i due manuali di storia della letteratura inglese più consultati e maneggevoli. David Daiches (Storia della letteratura inglese, 3 voll.) la cita dopo Ann Radcliffe e prima di Maria Edgeworth (il cui principale merito diventa quello di aver ispirato a Walter Scott l’idea di concentrare la sua visione letteraria sulla storia della Scozia) e parla di Evelina in termini apparentemente favorevoli per poi confrontarlo con Tom Jones di Henry Fielding, deplorando la sua mancanza di “epica comica”. Chiunque abbia letto Tom Jones converrà che i due romanzi non hanno, né potrebbero avere, alcun punto in comune, che un paragone risulterebbe impossibile e, comunque, non potrebbe essere addotto come argomento critico favorevole o contrario.

Molto più imparziale si dimostra Mario Praz che, nella decina di righe dedicate a Fanny Burney, si preoccupa di inserirla nel contesto di un tormentato passaggio dalla sensibilità illuminista a quella romantica e ipotizza un continuum tra la Burney e la Austen, anche se a quest’ultima sono dedicate quasi due pagine. Da ciò sarebbe facile dedurre che la Austen è scrittrice migliore della Burney e liquidare così l’argomento confermando implicitamente la trascuratezza dei manuali di letteratura nei confronti di quest’ultima. È sufficiente, però, rammentare un romanzo della Austen per capire che il suo mondo è lontanissimo da quello di Evelina e che le sue eroine si muovono in un ambito assai diverso da quello che circonda Miss Anville o Belmont che dir si voglia. Inoltre, il piglio satirico della Burney e la violenza di certe sue scene grottesche sono assolutamente sconosciuti alla Austen il cui spirito è magnificamente riassunto nella strepitosa frase iniziale di Orgoglio e pregiudizio, secca e prosciugata di qualsiasi romanticismo pur trattando la materia scottante per eccellenza dei romanzi sentimentali: «È verità universalmente riconosciuta che un uomo dotato di un buon patrimonio ha bisogno di una moglie». La geografia austeniana è di tipo provinciale e localistico: un circolo di amici, un tranquillo paese di campagna, una famiglia; niente a che vedere con Londra, con il cannibalismo sociale del bel mondo e dei luoghi pubblici che costituiscono lo sfondo di gran parte di Evelina. Si tratta di scelte funzionali a un diverso procedere della narrazione: la Austen preferisce concentrarsi sulla mente delle protagoniste dei suoi romanzi e sulla genesi di quel “pensiero produttivo” che le porta a formulare un nuovo ordinamento della situazione personale e della loro posizione rispetto all’ambiente circostante.

Altre sono le strade narrative percorse invece dalla Burney, ma prima di esplorare i temi con cui si è confrontata nel corso della sua lunga carriera di scrittrice (seppure non fecondissima), cerchiamo di approfondire la conoscenza con una personalità umana straordinariamente interessante.

Fanny Burney (successivamente Madame D’Arblay) nasce nel 1752, figlia del famoso musicologo Charles Burney, personalità insigne nella vita culturale londinese (e non solo) della seconda metà del XVIII secolo. Il debutto letterario di Fanny avviene anonimo nel 1778 con Evelina, or the Entrance of a Young Lady in the World, consegnato di nascosto allo stampatore con la complicità del fratello per paura del giudizio negativo del padre e per un generico timore verso l’esposizione sociale dovuta alla pubblicazione. Grazie al successo strepitoso del libro e alla cerchia di frequentazioni del padre, Fanny entra in rapporti di amicizia con Samuel Johnson, Mrs Hesther Thrale, Joshua Reynolds e altre personalità della cultura contemporanea. Questo tipo di plauso generale fa capire il genere di aspettative che circondava la povera Fanny e la sua opera successiva. Prima di Cecilia, or Memoirs of an Heiress, il suo secondo romanzo, l’autrice si misurò con la scrittura drammaturgica, portando a termine una commedia, The Witlings, ma il padre e altri amici di famiglia fecero su di lei pressioni piuttosto decise perché rinunciasse al teatro (che continuava ad avere un’aura piuttosto negativa per quanto riguarda la fragilissima reputazione femminile). Il teatro resterà uno dei sogni irrealizzati di Fanny che, dopo The Witlings, scriverà nel corso degli anni altre due commedie, Love and Fashion e A Busy Day, fino a poco più di un decennio fa relegate nella collezione Berg di manoscritti della New York Public Library e oggi editate, raccolte in volume e studiate.

Torna quindi al romanzo e nel 1782 esce Cecilia, or Memoirs of an Heiress, assai diverso dal primo, dal tono serio e meno ottimista. L’accoglienza è tiepida e tutto quello che non riesce ad essere contenuto nell’etichetta “romanzo di costume” data alla Burney autrice di Evelina viene visto come un fallimento rispetto alle aspettative che volevano inchiodarla come scrittrice satirica. Passano perciò quattordici anni tra il secondo e il terzo romanzo e sono anni molto densi di avvenimenti: c’è una probabile, fortissima delusione amorosa; c’è l’avventura a corte in quanto insignita dell’ambito titolo di Second Keeper of the Robes della regina Charlotte; c’è un periodo di cinque anni segnato dalla depressione e dalla solitudine, inasprite dalla reclusione forzata che la pazzia di George III impone a tutto il suo entourage. In questi anni Frances continua a tenere i diari che la accompagnano per tutta la vita e l’unica forma di scrittura creativa che pratica è quella drammatica: scrive quattro tragedie in blank verse delle quali una sola, Edwy and Elgiva, verrà poi allestita, con successo così scarso da durare una sola serata. Quando riesce a lasciare il servizio a corte per motivi di salute (guadagnandosi anche una piccola pensione), la sua vita – come spesso succede nelle esistenze normali oltre che nei romanzi – cambia radicalmente nel giro di pochissimi mesi.

A 41 anni, nel 1793, avviata da tempo sulla strada del nubilato, incontra un rifugiato francese che aveva combattuto con Lafayette e, nel giro di sei mesi, lo sposa per dargli un figlio alla pazzesca (per quei tempi) età di 43 anni. Il terzo romanzo, scritto anche per necessità economiche, esce nel 1796: Camilla, or a Picture of Youth si fregia del patrocinio della regina ed esibisce una lunga autogiustificazione in cui l’autrice prende le distanze dal genere “romanzo”, ormai inflazionato da scrittrici di scarso valore immancabilmente stigmatizzate dai recensori che non mancano mai di sottolineare la mediocrità della produzione di tutte quelle “scribacchine”. Se non è un romanzo, come si può definire Camilla? La Burney lo descrive come «una composizione sulla vita, sui costumi e sui caratteri, un’opera in cui mettere in azione morale e, insieme, temperamento dei personaggi». Malgrado questa excusatio iniziale, il romanzo risulta un vero e proprio successo editoriale i cui proventi permettono alla Burney la costruzione del “Camilla’s cottage” nel Surrey. Eppure, ancora una volta, passano diciotto anni prima che la Burney dia alle stampe un’altra opera e, in questo lasso di tempo, si susseguono eventi memorabili.

Nel frattempo, la famiglia Burney-D’Arblay si trasferisce in Francia: con Napoleone l’ex rifugiato viene reintegrato in servizio a Parigi e moglie e figlio lo seguono. Sembrava un trasferimento breve e invece dura dieci anni: i rapporti tra Francia e Inghilterra trasformano questo viaggio in una sorta di esilio. Questo per quanto riguarda la macrostoria; sul piano personale, a Parigi Fanny Burney vive anche una terribile esperienza psicofisica. Nel 1811 le viene diagnosticato un cancro al seno: ovviamente l’unica cura possibile è l’asportazione chirurgica. Il cloroformio verrà scoperto e usato solo un paio di anni più tardi: per la Burney rimangono un po’ di whisky e un orrore infinito che cerca di esorcizzare descrivendolo freddamente nel diario e nelle lettere.

Nel 1812 ritorna in Inghilterra con il figlio e due anni dopo pubblica il quarto e ultimo romanzo, The Wanderer, or Female Difficulties, dal quale ricava una somma più che discreta. La storia ha però ancora delle sorprese in serbo per lei e per il marito che si trova a combattere in Belgio contro Napoleone dopo la fuga dall’Isola d’Elba. Fanny segue D’Arblay in carrozza e si trova a Bruxelles durante la battaglia di Waterloo che descrive nel proprio diario con grande efficacia, in bilico tra la consapevolezza di essere un pezzettino di storia e l’attenzione alle piccole cose sconosciute che fanno da sfondo ai grandi eventi: il fumo, la polvere, la confusione, i grandi silenzi. Il marito è ferito: tornano entrambi in Inghilterra, ora insigniti del titolo di comte conferito da Luigi XVIII. D’Arblay morirà tre anni più tardi e la fila dei lutti personali, già abbastanza lunga, comincia a infittirsi con l’andare del tempo, fino a includere anche il figlio, nel 1837. A Fanny Burney tocca il dolore di sopravvivergli altri tre anni. Muore il 6 gennaio 1840; è seppellita accanto al marito e al figlio nel Wolcot Churchyard di Bath.

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La prima impressione nel leggere Evelina, è che si tratti di una rosea fiaba sentimentale. Su questa facile catalogazione pesano anche le scene che – grazie alle frequentazioni teatrali del dottor Burney (amico personale di Garrick, famoso attore e impresario teatrale di quel periodo) e al talento personale di Fanny nel riprodurre i tic linguistici – procedono esclusivamente grazie al dialogo e a una fotografica attenzione al colore delle parlate individuali (valgano per tutti il capitano Mirvan con il suo gergo infarcito di termini marinari e le impuntature affettate di Mr Lovel). Se il risultato complessivo è comico, i particolari diventano agghiaccianti: la violenza psicologica in agguato dietro eventi apparentemente innocui come una festa da ballo, resa dalla Burney con l’arma dell’imbarazzo e della confusione che attanagliano Evelina dopo aver provato a rifiutare un cavaliere sgradevole per accettarne invece uno di suo gradimento; la rapacità di corteggiatori che sembrano galanti e appassionati, in realtà vere e proprie mine vaganti per la fragilissima reputazione di una donna, costituisce ulteriore motivo di imbarazzo e confusione.

Se Evelina avesse un protagonista maschio, sarebbe un romanzo di formazione: in effetti Evelina attraversa le varie fasi del processo che le permette di portare a maturazione la capacità di giudizio individuale e operare autonomamente alcune scelte (come tenere a bada i corteggiatori importuni, oppure uscire onorevolmente dalle situazioni imbarazzanti in cui la mettono i cugini Branghton, gretti e maleducati); ma al termine del romanzo (e quindi del processo di formazione) restiamo con la sensazione frustrante di un abbandono del campo per rifugiarsi nella gabbia dorata di una resa incondizionata al nome e alla guida di un uomo, vanificando quelle doti individuali affinate durante il percorso. Certo, il piglio generale brillante di Evelina sembrerebbe smentire questa visione troppo negativa, ma i romanzi successivi mostrano una cupezza abbastanza uniforme malgrado gli alti e bassi dell’andamento del plot sentimentale. Senza scendere nei particolari delle trame dei tre romanzi successivi (tutti di dimensioni piuttosto intimidatorie per gli standard editoriali attuali), possiamo dire che lo schema comune prevede una personalità femminile centrale dotata di strumenti eccezionali in fatto di sensibilità e capacità di giudizio, frustrata e destinata ad attraversare le buie regioni dello smarrimento interiore perché troppo forti sono le pressioni imposte dalla società patriarcale. Ecco che Cecilia, protagonista dell’omonimo secondo romanzo, non riesce a reggere all’angoscia provocata dai limiti strettissimi imposti alle donna in termini di reputazione e, quando si deve confrontare con le clausole ereditarie per restare in possesso del nome e dei propri soldi, finisce depredata da tutori rapaci o inetti e conosce il baratro di una momentanea follia che la spoglia della ragione e, per breve tempo, dell’identità. Meno terribile, ma ugualmente angoscioso, è Camilla, versione a tinte fosche di Evelina: anch’esso romanzo di formazione (o di mancata formazione), in cui si mette a confronto uno spirito giovane e promettente con le convenzioni del tempo che rischiano di mandare a monte un amore, imprigionandolo nelle reti dei comportamenti regolati dai conduct-book dell’epoca. Camilla non arriva alla pazzia, ma vive sulla sua pelle dosi massicce di angoscia e sensi di colpa che la portano al delirio. Juliet, la protagonista (in incognito per tre quarti del romanzo) di The Wanderer, non rischia la ragione; i suoi problemi sono molto concreti: come sbarcare il lunario in un mondo dove una donna non “protetta” sperimenta un’invisibilità sociale che la priva anche dei più elementari diritti. Si tratta di una tesi molto precisa che non manca di suscitare l’irritazione dei recensori: William Hazlitt nota con stizza che la Burney «guarda le cose con la consapevolezza del proprio sesso femminile», notazione che a noi suona oggi come un elogio.

Dopo il plauso incondizionato di Samuel Johnson, che la trova addirittura migliore di Samuel Richardson e Henry Fielding, la Burney è oggetto di giudizi che pongono sempre più riserve al suo talento. Nel XX secolo il riconoscimento della sua importanza tocca il punto più basso, e si giunge addirittura ad affermare che la scrittrice «johnsoneggiava» nella prosa e che i suoi personaggi sembravano «pesci rossi che parlano come balene»; oppure viene ribadito, con altre parole, il concetto già espresso da Hazlitt e sul quale, poi, si è costruita la teoria dello “specifico femminile”.

La curva dell’apprezzamento per Fanny Burney riprende a salire solo quando si comincia a dare spazio all’esperienza femminile, quando si comincia a rileggere il “canone” letterario con occhio meno viziato dalla condiscendenza patriarcale e quando si leggono i romanzi scritti dalle donne come una specie di percorso senza soluzione di continuità nel quale si riflettono “archetipi femminili”. Il rischio di applicare gli strumenti della critica affinati da scienze come la psicoanalisi, l’antropologia e la sociologia è quello di dare forma compiuta a intuizioni informi da parte di sensibilità sì ricettive, ma ancora prive delle “parole per dirlo”. Leggendo i suoi romanzi siamo comunque in grado di riconoscerle la precognizione di quello che negli ultimi decenni è stato definito “soffitto di cristallo”: una barriera invalicabile dietro la quale si intravvedono le più ampie possibilità per chi non è costretto a subire uno sviluppo interiore mozzo. In questa sua sensibilità all’attrito tra le donne e un mondo dominato da ideologie restrittive troviamo gli elementi per considerare la Burney una vera e propria mother of the novel che sa parlare, seppure in modo palinsestico, alla nostra anima del ventesimo secolo.

 

Chiara Vatteroni

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