Recensione del Guardian a «Elmet» di Fiona Mozley

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In attesa della pubblicazione di Elmet di Fiona Mozley, in uscita il 27 settembre, vi proponiamo la recensione del Guardian al romanzo.

 

L’esordio di Fiona Mozley, inserito fra i finalisti del Man Booker Prize, è un noir minimale, contemporaneo e dall’atmosfera rurale, impregnato della letteratura, del mito e della storia medievale dello Yorkshire. Doncaster è il punto di riferimento più vicino, il cuore geografico dell’antico regno da cui il romanzo trae il proprio nome e sul quale Ted Hughes ha basato il suo ciclo di poesie intitolato I resti di Elmet. Robyn Hode e la rivolta dei suoi sodali alimenta la narrazione. Come dice Daniel, il narratore di Mozley: «Il terreno brulicava di storie lacerate che si riversavano verso il basso, marcivano, poi ritrovavano forma e riemergevano attraverso il sottobosco per rientrare nelle nostre vite».

Daniel e la sorella Cathy vivono in una casa che assieme al loro Papà hanno costruito a mani nude vicino ai binari della linea principale della costa orientale. Il nome del Papà è John, ma per Daniel e Cathy rimane sempre Papà. Il contrasto tra la delicatezza infantile del modo di chiamare il padre e la persona di John – un pugile colossale che combatte a mani nude – trasforma in un improvviso sollievo la tenerezza primordiale che lega i tre quando i bambini lavano e tagliano i capelli al padre o condividono con lui sigarette rollate o sidro. Tuttavia gli estranei hanno un punto di vista più ostile: «Gli altri percepivano debiti e reciprocità, immaginavano minacce fondate unicamente sulla sua presenza fisica». Quella presenza è eccessiva se messa a confronto con gli ufficiali giudiziari e i combattenti che si ritrova ad affrontare: «Era gigantesco. Un suo braccio era grosso come due dei loro. I suoi pugni erano grandi quasi quanto le loro teste. La cassa toracica era abbastanza larga da contenere uno qualunque di quegli uomini, rannicchiato all’interno come un feto nel grembo materno».

La “moralità” di Papà è così antica da precedere i normanni. Ha un furgone senza possedere atti di proprietà o documenti e ha costruito la propria casa su una terra che non gli appartiene. Si assicura di cacciare con compassione: tra di loro, in famiglia, si divertono a giocare con arco e frecce. Papà ha ucciso degli uomini e ne parla con onestà ai propri figli. Il corpo, la forza e l’ingegno sono le uniche cose che possiede davvero. Ha un modo diretto di trattare le persone, ma il sospetto con cui gli altri si relazionano a lui lo ha spinto fuori dalla società: «Voleva rafforzarci contro i lati oscuri del mondo. Più ne sapevamo, meglio saremmo stati preparati. Eppure non c’era niente del mondo nelle nostre vite, solo storie che lo riguardavano». Questo modo di vivere da emarginati ha reso la famiglia invisa a proprietari terrieri e impiegati venali e ai loro codardi lacchè, che si aggirano attorno alla famiglia Price, la quale si dimostrerà la loro nemesi. La rivelazione di una storia occulta condivisa fa scivolare la narrazione verso la tragedia.

Il lirismo di Elmet è tanto ricco quanto genuino. Alimenti semplici e casalinghi – patate al forno e tazze di tè – vengono descritti in maniera tale da suscitare appetito. Il dialetto viene messo su carta con un’abile trovata: il modo in cui la parlata dello Yorkshire si mangia la fine delle parole risalta di più nelle contrazioni dei verbi negativi, per cui si ha “doendt” per doesn’t e “wandt” per wasn’t. In altre occasioni i vocaboli non creano ostacoli alla lettura: abbiamo tutti familiarità con le cose che  vanno “tits up” e l’occasionale “wrong’un”. Ma più di tutto la natura – la flora, la fauna, il fango, il sangue e i minerali – viene descritta con grande perizia. Papà ritiene Daniel, che porta i capelli e le unghie lunghe e le magliette a metà della pancia, uno strano ragazzo visto che gli piacciono le faccende domestiche. Cathy, un’elettrica e vendicativa rediviva dell’universo delle Brontë, dice al fratello: «Sono sempre arrabbiata, Danny. Tu no?».

Minimi sfasamenti dall’inevitabilità avvolgente del registro e della trama ci sono laddove la politica gender o di classe viene espressa dalla voce di personaggi che implicitamente già la incarnano. All’opposto la malvagità è lasciata un po’ più abbozzata. Le parti più forti del romanzo, come la scena in cui la resistenza collettiva si rinsalda radunandosi attorno a un falò, liberano i personaggi dal fardello del didascalismo.

Elmet appartiene a un ceppo del gotico britannico che rispecchia la varietà che per molto tempo ha dominato la scena negli Stati Uniti del Sud. Il gotico da sempre ci restituisce ciò che reprimiamo, che si tratti di monaci nascosti in loculi o corpi seppelliti nelle paludi. Coloro che sono stati socio-economicamente repressi – combattenti, ex soldati semplici, viaggiatori – risorgono in questo ricco romanzo fiabesco, sotto le spoglie di qualcosa di più radicale e condannato all’insuccesso: una moralità pre-capitalista. L’inglobamento di tali miti all’interno del linguaggio e dei panorami di Hughes, trascinati dalla brughiera fin giù nei boschi, genera una gemma nera e sbozzata.

 

Traduzione di Simone Traversa

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