In occasione dell’uscita di I provinciali di Jonathan Dee, Alessia Ragno ci racconta le sue impressioni sul romanzo.
Il 12 settembre 2001 un uomo minuto e nervoso si aggira in una New York sotto shock, città fantasma scossa dagli avvenimenti nefasti del giorno prima. La metro è deserta, la gente è unita nel dolore e l’atmosfera generale da “Kumbaya e fratellanza universale” risulta francamente intollerabile agli occhi dell’uomo nervoso. Sta cercando di incontrare un avvocato che gli ha promesso di recuperare tutti i soldi affidati ad un abile truffatore, ma in questa giornata di lutto e sconcerto nessuno si fa trovare. Il suo destino si incrocia con quello di Mark Firth, anche lui truffato nella stessa maniera; è un provinciale di Howland, Massachusetts, che si è ritrovato per caso a New York nel giorno più sconvolgente della sua storia.
Comincia così, con un capitolo zero narrato in prima persona, I provinciali di Jonathan Dee, ma è solo un trucco letterario, i veri protagonisti sono Mark, la sua famiglia e la comunità fittizia di Howland, simbolo, suo malgrado, delle fasi attraversate dalla società americana dopo l’11 Settembre. Dapprima l’incredulità, il dolore e la perdita, il compattarsi in un unico popolo libero, per poi trincerarsi in una rabbiosa difesa dei valori americani e della sicurezza della nazione in una “guerra invisibile”, come la definisce Dee, e per questo ancora più complicata. E lì, sepolto da rabbia e valori patriottici, giace il grande sogno americano dei cittadini di Howland e dell’americano medio in generale, colui che Mark stesso rappresenta. Va in crisi, irrimediabilmente, quell’equazione perfettamente collaudata secondo la quale tutti possono diventare grandi, ricchi e potenti negli Stati Uniti d’America, basta volerlo. E questo sogno americano da obiettivo unico e quasi tangibile diventa frustrazione primaria di Howland e della famiglia Firth, in un conclamato declino legato alla crisi economica post 9/11, ma anche crisi dei valori, quelli incarnati dall’altro perno del romanzo, Philip Hadi. Lui, ricchissimo self made man, arriva a Howland spinto dalla paura: New York per lui non è più una città sicura, ha bisogno di ritrovare il suo equilibrio nel silenzio della campagna americana più autentica. Un magnetismo, quello di Hadi, dato dalla enorme ricchezza e dal successo personale: lui sì che è l’incarnazione del sogno americano. Come lo stesso Dee ha sottolineato in una intervista a Bookpage (Jonathan Dee, An accidental American allegory https://bookpage.com/interviews/21624-jonathan-dee-fiction#.XJ4_YhNKjVo) che racconta la genesi del romanzo:
L’idea che la ricchezza estrema non solo sia indice di particolari abilità ma anche di una sorta di purezza morale mi è girata in testa per un po’.
Hadi, infatti, diventa una figura centrale in Howland grazie ai soldi, una altissima capacità di persuasione e l’ingenuità profonda dei provinciali del paese: praticamente un ritratto ricorrente nella politica americana.
Mark e Hadi, però, non sono gli unici soggetti della narrazione, ma al loro fianco c’è un accurato set di personaggi ugualmente fallimentari, furiosi col sistema, complottisti e sull’orlo dell’esaurimento, una collezione talmente perfetta e moderna da fare quasi paura al lettore dell’era Trumpiana e populista. Che il declino della società americana sia proprio partito dal 9/11? Non ci sono prese di posizione, ma il dubbio si insinua più di una volta.
Tutti quelli che vedeva in televisione, gli esperti, gli allarmisti, i complottisti sembravano dire un sacco di stronzate, ma le loro stesse stronzate erano una conferma di quello che lui avvertiva nel profondo: che tutto era ormai disancorato, che il declino delle convinzioni si manifestava nell’apparente disponibilità della gente a credere a qualsiasi cosa.
Questo è il seme della moderna tendenza ad affidarsi a guru, teorie complottiste e rabbia contro il sistema, trio immancabile anche nel web che ne “I provinciali” fa capolino agli albori della sua diffusione quasi endemica. Jonathan Dee racconta la nascita dei primi blog, il delirio di onnipotenza, tuttora presente, dato da anonimato ed estrema libertà di parola, e la sensazione che chiunque abbia il diritto, anzi, quasi il dovere, di esprimere il suo dissenso con furia cieca, in nome di una guerra contro i potenti antica quanto il mondo. Sul web tutto diventa credibile solo perché è scritto da qualcuno; il fact checking, come ora del resto, è ancora un valore lontano. In questa lotta contro il potere generalizzata e poco efficace c’è un dialogo molto significativo tra Mark Firth e Philip Hadi, presagio di quello che sarà più avanti nello sviluppo della vicenda, ma anche nel nostro presente.
«Ma questa è l’America», ribatté Mark arrossendo. […] «Ci si aspetta che chiunque provi a migliorarsi. A pensare in grande. Giusto?»
La risposta di Hadi sarà tremendamente sottile e sintomatica. Eccolo, ancora, il sogno americano illusione di molti, l’idea che tutto sia dovuto, sempre e con ogni mezzo. “I provinciali” è il racconto impietoso della piccola borghesia americana, la distruzione del sogno, la constatazione di quanto possa diventare patetico e inconsistente. A narrarlo, un Jonathan Dee particolarmente ispirato che alimenta più storie personali, in una sorta di concatenazione narrativa alla Elizabeth Strout, solo molto più distaccata e meno rassicurante. Più dialoghi si avvicendano con cambi repentini di soggetti che all’inizio spiazzano, ma diventano terribilmente coinvolgenti man mano che si procede con la lettura. In tutto questo loro, i Firth, disperati, alla deriva e disfunzionali, un po’ come i Lambert del Midwest di Jonathan Franzen ne “Le correzioni”, ma più terreni e vicini al nostro presente. Sono, nonostante tutto, ancorati blandamente alla speranza nel futuro, ma talmente rassegnati sul loro presente da aver smesso anche di chiedersi come tutto sia andato in rovina. Anzi, a pensarci bene forse non se lo sono mai nemmeno domandato presi com’erano da ciò che gli spettava di diritto.
Alessia Ragno