I veri (ma non ovvi) sentimenti di «Eredità» di Vigdis Hjorth

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Hjorth

In occasione dell’uscita di Eredità di Vigdis Hjorth, vi proponiamo le riflessioni sul romanzo di Giulia Pretta.

 

La narrativa dei sentimenti corre sempre su un filo sottile: quella dell’ovvietà e della banalizzazione.

Sappiamo bene che i sentimenti che proviamo sono complessi e tentacolari, sia quelli positivi che negativi. Ogni evento suscita in noi un ventaglio di emozioni, alcune riconoscibili, altre sconosciute e altre riconoscibili ma che ci fanno vergognare di averle provate. In caso di un lutto grave, per esempio, saremo prostrati dal dolore, ma in qualche modo ci godremo le attenzioni di chi sta intorno a noi. Un’emergenza nazionale avrà di fondo il sollievo di una sospensione della nostra vita regolare e la possibilità di rimandare impegni e compiti gravosi. Non sono emozioni che riconosciamo con piacere, sfociano nel disagio per averle provate, ma se nella vita reale possiamo dare voce solo ai sentimenti riconosciuti e accettati (il lutto sta al dolore, l’emergenza alla preoccupazione), nella narrativa questa scelta può, per l’appunto, scadere nell’ovvio. E una cosa ovvia non vale la pena di scriverla perché appiattisce e banalizza tutto il mondo interiore del personaggio. Flannery O’Connor sosteneva che per scrivere non bisogna avere paura di sporcarsi le mani e mai quest’esortazione assume valore come quando si vuole scrivere di situazioni che generano sentimenti scomodi. Vigdis Hjorth risponde bene a questa sfida e non ha paura di calarsi a fondo nelle situazioni tragiche presentate in Eredità. A partire dal violento segreto che Bergljot nasconde alla sua famiglia: gli abusi perpetrati contro di lei dal padre:

Mi toccò come un padre, mi toccò come un medico.

A partire da questa percussiva espressione che con una splendida ellisse narrativa introduce nell’orrore della violenza e dell’incesto, scendiamo nel complesso substrato di sentimenti che agitano i vari attori della vicenda.

Bergljot, la figlia maggiore e la preferita, voce narrante e destinataria delle attenzioni del padre, è la vittima che non ha mai raccontato di quanto successo. Come verrà accusata poi dalla famiglia, non si è mai recata alla polizia, non ha mai sporto denuncia e non verrà quindi mai completamente creduta. I sentimenti che la accompagnano da sempre e che sono sfociati in una vita sentimentale difficile, un rapporto con l’alcol che va oltre il normale consumo e anni di terapia, sfumano dalla paura al desiderio di stare lontano dal padre e dalla madre fino al terrore che il padre dei suoi figli faccia patire lo stesso inferno alla figlia maggiore. La paura di Bergljot è tale da spingerla a immaginarsi situazioni in cui incontra i genitori senza sapere cosa fare: anche situazioni poco comuni, come quella di essere dietro di loro a un check in per un volo. Per quanto ben delineato nel minimalismo stilistico dell’autrice, sono sentimenti riconoscibili e prevedibili. Ma Eredità non ha paura di scendere più a fondo e di esprimere chiaramente quello che Bergljot pensa: ovvero che ha sempre preferito il padre alla madre.

[…] mio padre era più chiaro di mia madre, ed è più facile rapportarsi a persone che sono chiare e schiette che a quelle che sono vaghe, che parlano in maniera indecifrabile, ricorrendo a frasi fatte, hanno la lingua biforcuta e si contraddicono.

Una dichiarazione che non giustifica né perdona il colpevole ma che, complici anche gli anni di distanza perché la narrazione avviene quando Bergljot è ormai nonna, fa una chiarezza sorprendente nei suoi sentimenti. Sentimenti non ovvi e che arrivano al cuore di quel ventaglio di emozioni.

In questa vicenda, ciò che più è doloroso e lesivo per Bergljot non è, come si potrebbe pensare, la violenza, ma la quieta accettazione da parte della madre. Tutto il romanzo è molto silenzioso. Oltre che per la mancanza di dialoghi diretti e per la comunicazione tra i membri della famiglia affidata spesso a email, sms, lettere non aperte, non viste, cancellate, è il silenzio sulla violenza a ferire di più: una mescolanza di mancata comprensione dell’accaduto e di quieta acquiescenza per il bene della famiglia. La madre di Bergljot, vera bellezza in gioventù e perfetta in coppia con il padre, anche di fronte all’angosciata domanda del padre “e se l’avessi davvero fatto?” si tira indietro, non può accettare quanto successo per non distruggere il matrimonio e la famiglia. Per questo accusa Bergljot di aver inventato tutto e di averlo fatto per rendersi interessante; per questo giustifica la violenza del marito anche contro di lei raccontando che, dall’esterno, tutti lo ritenevano un uomo divertente. La madre viene meno al suo ruolo di madre, si estranea dal compito di difesa della prole e l’accusa del volersi rendere interessante è quanto di più volgare una madre possa dire a una figlia e anche quanto di più violento. Sentimenti questi che non vorremmo mai vedere né espressi né provati, ma che in qualche recondito ambito ci sono (e sono gli stessi che fanno urlare al «ma se l’è cercata») e che Vigdis Hjorth non ha paura di mettere sulla carta. Così come non ha paura di far vedere come le sorelle non le vogliono credere perché Bergljot, quella che aveva sempre goduto di maggiori attenzioni da parte dei genitori, ora, con la storia dell’incesto, avrebbe diritto anche alla loro compassione.

E il padre, il carnefice, è analizzato con grande acume nonostante il pensiero della figlia sul suo crimine:

più grande, ma più puro, l’auto-verdetto che si era inflitto era più duro, il suo ritrarsi, la sua forma di depressione appariva più conciliante.

Se fino ai sette anni ha abusato della figlia e che così facendo ha anche suscitato una certa invidia nelle sue sorelle che la vedevano come la preferita, quando decide di smettere non è per un senso morale o di colpa. Ma è solo perché:

a sette anni la figlia maggiore capiva di più.

E allora una confessione, una parola di troppo, un particolare rivelatore nelle recite che Bergljot amava mettere in scena con gli altri bambini, avrebbero potuto rovinarlo. C’è calcolo in questa scelta e una strenua difesa della propria posizione che arriva a fargli accusare la figlia di essere una psicopatica pur di non dover fronteggiare le conseguenze di quanto fatto.

Di fronte a dolori di tale vastità sembra restare ben poco che non sia ovvio da scrivere. Eppure, Vigdis Hjorth scende ancora più in profondità fino a toccare il pragmatismo che si cela dietro ogni dolore e tragedia.

Essere succubi ti fornisce competenze. Se si è così fortunati da superare tutto quanto, è fondamentale non dimenticarsi delle competenze acquisite quando si era infelici.

Un imparare l’arte e metterla da parte, come recita il proverbio, e che applicata a questa situazione suona quasi sacrilega. Nel momento in cui la si legge ci si rende conto, con una punta di vergogna, di quanto potentemente vera essa sia. Vera, ma non ovvia; potente, ma non facilmente accettabile. Così come alcune sensazioni che proviamo e che facciamo di tutto per non esprimere.

 

Giulia Pretta

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