In occasione dell’uscita di Il capofamiglia, Alessia Ragno ci racconta le sue impressioni sul nuovo romanzo di Ivy Compton-Burnett.
Duncan Edgeworth è «un uomo che dava agli altri e a se stesso la sensazione di essere alto» quando nel giorno di Natale dell’anno 1885, a sessantasei anni, è seduto nella sala da pranzo della sua casa ad aspettare l’arrivo dei figli per la colazione. Sua moglie Ellen, «bassina, smunta e giallastra» cerca di placarlo come può: è irritato per il ritardo dei ragazzi, Nance, Sybil e il nipote Grant, e quando questi arrivano dà il via ad un fitto scambio di aggressioni che si chiuderà, impietosamente, solo a fine romanzo. Con Il capofamiglia la scrittrice britannica Ivy Compton-Burnett si immerge nell’indagine spietata della famiglia nell’epoca vittoriana e ci porge un ritratto feroce di uomini e donne mentre sono intenti a battibeccare, aggredirsi verbalmente e giudicarsi a vicenda.
Duncan vuole il controllo totale della sua famiglia, di ciò che è giusto e ciò che è inappropriato, ed in un certo senso ce l’ha già quando si sente in dovere di tiranneggiarli e ricorda alle figlie il loro posto. «Oh, comandi tu padre. […] Devi smetterla di voler fare l’uomo e anche la donna» gli dice Nance, accusandolo di sovrastare le esigenze di tutti, tanto da occuparsi anche di ciò che è prettamente femminile secondo i canoni del loro tempo. Duncan e l’intera famiglia Edgeworth sono i tipici personaggi di Compton-Burnett: una personalità arcigna, Duncan in questo caso, ma già vista con Josephine Napier in Più donne che uomini, artefice principale del clima tirannico nel contesto familiare; intorno a loro un coro di servitori, amici di famiglia e il chiacchiericcio incessante.
Quello dell’ambiente familiare opprimente è un tema molto caro all’autrice, se non addirittura il più ricorrente, interessata come era ad esplorare le dinamiche dei giochi di potere di capifamiglia, figli e consorti. In questo romanzo gli uomini, o meglio Duncan, rimangono sul piedistallo del privilegio maschile in una società patriarcale a giudicare comportamenti e melodrammi, di cui l’opera di Compton-Burnett è ricca; le donne, dal canto loro, dissimulano il loro egoismo fingendo sincero interesse per la comunità di cui fanno parte. Il tutto emerge non per un diretto racconto dell’autrice, nonché unica voce narrante, ma dall’incalzare dei dialoghi, testimonianza tangibile del potere infinito delle parole e di quanto a fondo si possa andare negli strati del dialogo. Questa “ridondanza barocca” di sottintesi, paradossale e geniale allo stesso tempo, è la stessa caratteristica che ha fatto sì che la giornalista Susan Sontag inserisse di diritto, nella sua definizione di camp, tutta la produzione di Ivy Compton-Burnett. Il camp, la cui caratteristica principale è l’esagerazione, il divertimento, e anche «la serietà che fallisce» in una comicità non sempre facile ed evidente, ma nascosta tra le pieghe di un dialogo, come solo Compton-Burnett sa fare.
Un romanzo modernista, il suo, che è anche una commedia gotica (fonte: http://minormoderns.blogspot.com/2009/08/ivy-compton-burnett-house-and-its-head.html) perché si tinge ben presto di drammi, colpi di scena e matrimoni a sorpresa con continue pennellate comiche e amare. La pressione psicologica sui personaggi è altissima e, per buona parte, conseguenza diretta di Duncan e delle sue azioni, per le quali ci sarà solo una breve tregua a seguito di un lutto totalmente inaspettato. E questa pressione psicologica migra anche verso il lettore, di cui Ivy Compton-Burnett si prende gioco con maestria, impedendogli di empatizzare con i personaggi, strattonandolo, simbolicamente, con i battibecchi velenosi e gli avvenimenti di cui si leggono sempre e solo le conseguenze.
Per questa carenza di spiegazioni, e la capacità singolare nel farle emergere solo quando e dove vuole lei, Ivy Compton-Burnett è stata definita dalla scrittrice Sheila Kaye-Smith, nel suo All the books of my life del 1956 (fonte: https://www.stuckinabook.com/all-books-of-my-life-sheila-kaye-smi/), una “romanziera astratta”, perché i suoi romanzi non sono ritratti, ma “designs”, cioè stanno alla vita reale come le «rose stilizzate sulla carta da parati stanno alle illustrazioni realistiche di Flowers of the field[1]. Non si discute del perché la carta da parati abbia una simmetria e un formalismo che manca nella vita reale. Si deduce piuttosto, sia dal libro che dalla carta da parati, il significato essenziale di una rosa – infatti ci sono molti più significati astratti nel design della carta da parati che nell’immagine naturalistica». È questo, allora, il significato dell’astrazione che Compton-Burnett riesce a raggiungere: la rappresentazione della famiglia e delle dinamiche personali senza diventare didascalica, lasciando che sia chi legge a rilevarne e delinearne i contorni, i terreni di scontro e i veleni comuni, nella convinzione, come nella sua tradizione, che anche il peggio possa trionfare perché è al peggio che i suoi personaggi aspirano con estrema e regale eleganza nel gioco della sopravvivenza.
In questa dimora vittoriana, allora, Duncan tesse il suo gioco per il dominio della famiglia, mentre figlie e nipote, problematici quanto lui, ma più immacolati nell’immagine esterna, cercano di svincolarsi non senza macchie sulla coscienza. Il lettore, come già accennato, non solo non empatizza con questi personaggi, ma non saprà scrollarsi di dosso l’impressione che un po’ del veleno di Duncan e famiglia gli si appiccichi addosso, anche quando si chiede il perché di certe scelte e comportamenti, e capiterà spesso.
In Il capofamiglia risiede la più fulgida espressione dei grandi temi della poetica dell’autrice britannica: la famiglia e le sue dinamiche, ma anche gli stereotipi del patriarcato in un’epoca in cui le donne sono «dipendenti» a tal punto da rivendicare la propria persona mentre si chiedono, mille e più volte, e non senza tormenti, se saranno degne delle aspettative e se sono state brave figlie o mogli. E quel già citato coro di personaggi assiste non certo inerte alle vicende di famiglia, ma si prodiga nell’esercizio del pettegolezzo fitto tanto quanto sono fitti i dialoghi della famiglia Edgeworth. L’insegnamento che se ne trae è che nei romanzi di Ivy Compton-Burnett ci sarà sempre un censore crudele nelle vite di tutti, persino per il rigido Duncan.
Alessia Ragno
[1] Flowers of the Field è un volume di illustrazioni naturalistiche del botanico britannico Charles Alexander Johns. Il volume è stato pubblicato per la prima volta nel 1851. https://en.wikipedia.org/wiki/Charles_Alexander_Johns