In occasione dell’uscita di Tornare a casa, Alessia Ragno ci racconta le sue impressioni sul romanzo di Dörte Hansen.
Nelle prime pagine di Tornare a casa, della scrittrice tedesca Dörte Hansen, c’è un’estate senza cicogne che infesta i pensieri della giovane Marret Feddersen, un bambino investito per una maledetta coincidenza, olmi secchi, campi senza lepri e un mondo che continua a finire a ogni segno nefasto. Marret sventola il suo opuscolo sulla catastrofe imminente, trovato chissà dove, in questa estate degli anni ‘60 che cambia il corso delle vite di molti in paese, a cominciare proprio da quella della ragazza che si ritrova con un figlio a 17 anni. Lei che il villaggio intero aveva definito «irrecuperabile», «svitata», «un groviglio di persona», in «quel posto che se ne infischiava dell’inezia umana». Il villaggio è quello fittizio di Brinkebüll che Hansen colloca nella Frisia settentrionale, zona all’estremo nord della Germania, incastonato in una terra brulla e aspra: «Di bellezza neanche l’ombra. Solo terra nuda, una terra che sembrava devastata e sfinita». E questa terra è la chiave di volta dell’intero romanzo, l’elemento che cambia e soffre con violenza e pacata rassegnazione, molto più degli individui che lo abitano. Per questo c’è una cura speciale nelle descrizioni ambientali, il passare inesorabile delle stagioni e i panorami che cambiano con l’arrivo della modernità. Questa terra in mutamento nell’arco di 60 anni è il centro nevralgico della narrazione di Hansen, la sua protagonista, la sua dannazione, il luogo in cui cresce e cura i personaggi principali, pedine passeggere in una storia più lunga delle loro esistenze.
Brinkebüll è in Frisia, ma per la portata della scrittura e dell’incedere del romanzo potrebbe essere anche nel West Americano, dove vite intere nascono e muoiono nell’indifferenza della storia. C’è Marret, meteora impazzita in questo lungo arco di tempo che Tornare a casa racconta, suo figlio Ingwer e ci sono i genitori di lei, Sönke ed Ella. È proprio Ingwer, ormai adulto, a tornare a Brinkebüll per prendersi cura dei nonni, che chiama mamma e papà, piegati dalla vecchiaia, la malattia e dall’assenza della figlia. Quello di Ingwer, però, non è un ritorno a casa spinto dal richiamo della famiglia, piuttosto una fuga improvvisa da un’esistenza pasticciata e sospesa, la sua: una vita dedicata al lavoro in università e a un rapporto d’amore e fratellanza mai ben chiaro. La fuga di Ingwer, «sempliciotto dal cuore buono», ha la colonna sonora delle canzoni di Neil Young, il rumore del motore nel lungo viaggio in macchina per tornare nel villaggio natio, l’eco delle maledizioni del vecchio Sönke e i dispetti di Ella, persa nella sua demenza senile ingovernabile. Su diversi piani temporali, Hansen narra la vita dei coniugi Feddersen, la vergogna e l’accettazione di quel nipote inaspettato e, contemporaneamente, la crisi di Ingwer quasi cinquantenne, che riprende il contatto con le radici che ha ignorato a lungo per trovare le ragioni della sua stessa esistenza. C’è un senso di inadeguatezza atavico a infestare le vite di tutti, come se la «bruttezza velenosa» del villaggio avesse già irrimediabilmente rovinato tutti i suoi abitanti per l’eternità. E poi c’è la vita di uno sconfitto, Sönke, legato indissolubilmente alla sua osteria con una rassegnazione dignitosa, ma non meno pungente, figlio di un tempo in cui «ereditavi un mestiere e lo facevi senza storie». Con la stessa rassegnazione Sönke affronta la guerra, il matrimonio, la figlia, il nipote e una vecchiaia arcigna e statica, pieno di quei lividi che i pizzichi dispettosi di Ella gli procurano. E mentre le loro vite scorrono e prendono forma, sconfitte ma dignitose, Brinkebüll si trasforma travolta dalla modernità e tutto sommato se la cava anche senza i suoi abitanti.
A quanto pare non dovevi essere un nostalgico alla deriva in crisi di mezza età per rimpiangere un vecchio paese in cui strepitano le cicogne. Anche un uomo che usciva bene in tutto provava un senso di perdita di fronte alla Brinkebüll di oggi.
Tornare a casa è un romanzo sull’appartenenza, il valore dei ricordi e la capacità di lasciarli andare nel momento opportuno, senza fretta e paura, ma consapevoli di quello che è stato. Ma l’elemento più straordinario è che a Brinkebüll vivere e morire irrisolti non è poi una grande macchia perché il villaggio ti perdona i fallimenti, le occasioni perse, le decisioni mai prese. E in questo tempo sospeso, tra campi sconfinati, vento sferzante e l’affanno esistenziale, ci si rende conto che in fin dei conti uno scopo non è sempre necessario, non a Brinkebüll almeno.
Alessia Ragno