«Il peso del tempo» di Giorgio Montefoschi

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Hardy

In occasione dell’uscita di Due sulla torre, vi proponiamo l’introduzione di Giorgo Montefoschi al romanzo di Thomas Hardy

 

Nella stragrande maggioranza dei romanzi di Thomas Hardy esiste un elemento architettonico, un luogo fisico costruito dall’uomo – una rovina archeologica, per esempio, il muro perimetrale di una cattedrale gotica lungo il quale sono allineate antiche tombe, una cappella sepolcrale, un pozzo – in cui sono condensati i significati profondi, o occulti, delle vicende che il romanzo narrerà. Non importa quando lo incontriamo: se Jude l’oscuro specchia da subito, nel pozzo reale e senza fondo della sua infelicità, il mondo capovolto e la condanna del proprio destino; o se, già avanti con gli avvenimenti, al culmine della disperazione, sentendosi abbandonata da tutto e da tutti, Tess dei d’Urberville cercherà spiegazione e conforto dell’esistenza umana toccando le pietre che da tempo immemorabile proteggono il riposo dei suoi avi. In quel pozzo, sulla superficie di quelle pietre fredde, sono custoditi il desiderio della liberazione dai legami della vita, il peso del mondo.

Anche in Due sulla torre abbiamo un luogo-simbolo. È una torre, per l’appunto, costruita nel diciottesimo secolo, nella contea del Wessex, «come concreto omaggio alla memoria di un rispettabile ufficiale caduto nella guerra d’indipendenza americana». Sorge, al centro di una tenuta nobiliare, su una collina ricoperta di abeti, sotto la quale, secondo alcuni archeologi, si cela un accampamento di epoca romana, secondo altri un castello britannico o un antico campo nel quale i Sassoni tenevano le loro assemblee. Ora, resti umani tramutatisi da tempo immemorabile in fossili, nutrono le felci e l’erica, i tronchi sottili e diritti degli alberi. Gli alberi arrivano a metà della torre. Per questo motivo, la metà inferiore della torre è ombrosa e cupa, ricoperta di muschi e di licheni, dal momento che la luce non la tocca; mentre la seconda metà si erge nel cielo «come un oggetto luminoso e allegro, libero, liscio e inondato dal sole». Sappiamo anche – e stavolta lo sappiamo fin dalle primissime righe del romanzo – che dalla costruzione della torre sono passati degli anni – siamo alla fine dell’Ottocento, infatti – e che la torre stessa è stata adibita a osservatorio astronomico: un luogo da cui si scruta il cielo. Dunque, dobbiamo avere ben chiaro in mente che stiamo per accostarci a un racconto che prevede contrapposizioni manichee: da una parte, la terra che ci richiama alle sue radici di morte, dall’altra il firmamento che ci sovrasta; da una parte la salvezza, dall’altra la condanna; da una parte la luce, dall’altra l’oscurità.

La trama del romanzo è assai complessa e, nel solco delle vicende amorose e coniugali più classiche della narrativa di Thomas Hardy, allinea svariati elementi di contrasto, e parecchi colpi di scena, al fine di rendere impossibile l’amore terreno e il matrimonio. Lady Constantine, Viviette, la donna aristocratica tenuta in ostaggio e clausura da un marito geloso ed egoista che da più anni, senza dare notizie di sé, è scomparso in Africa, si innamora – ricambiata – del giovane astronomo Swithin St. Cleeve. Sennonché, insieme alle differenze sociali – Swithin è di umili origini da parte materna – Viviette ha di fronte a sé il peso e lo spettro del­l’età: infatti, è di dieci anni più anziana di Swithin. In tal modo, le innumerevoli difficoltà che intralciano il cammino della coppia – quelle romanzesche e quelle derivate dalle pastoie legali e morali dell’epoca vittoriana – sono aggravate oltre misura. «Mi amerà sempre, anche quando lui sarà ancora giovane e io avrò i primi capelli bianchi?», si domanda Lady Constantine.

Che domanda terribile! È una domanda che pone in secondo piano tutte le altre preoccupazioni morali (una donna matura che ostacola la carriera di un giovane scienziato che dovrebbe essere libero di girare il mondo) e quelle sociali (siamo di famiglie diverse: gli altri che diranno?), perché va al cuore di tutti i problemi: va al cuore del tempo. Tanto che noi lettori, talvolta impazienti, talvolta insofferenti nei confronti delle cupe ristrettezze di quel mondo, siamo disposti a non considerarle affatto; e magari ad ascoltare, nei lamenti dei rami piegati dal vento attorno alla torre, nei silenzi sepolcrali della magione nobiliare, le note del Cavaliere della rosa.

«Il tempo, cosa strana», canta la Marescialla al suo Octavian, ancora sprofondato nel tepore del letto che, per la notte d’amore, ha accolto entrambi. «Passiamo così i giorni della vita, e un nulla è il tempo. Ma poi a un tratto, ecco, non sentiamo altro che lui. È intorno a noi, è anche dentro di noi. Sui volti cola, cola nello specchio, e scorre nelle mie tempie. Ed è tra te e me, e scorre ancora. Silente come una clessidra…». Ma lì, nelle stanze viennesi, il valzer struggente accompagnerà ciascuno al suo destino – la donna più anziana, la Marescialla, alla rinunzia, Octavian all’amore sublime, addirittura ineffabile, per Sophie, e da lei ricambiato – con la malinconica grazia dell’accettazione e del rimpianto, in un tumulto di lacrime e di burle, di disperazione e di sorrisi. Qui, nel romanzo, non conosciamo leggerezza, soavità. Lì, l’incantevole intrigo della vita: la complicità della colpa e del perdono, della giovinezza e del tempo. Qui, la durezza spietata di una morale che non contempla i sentimenti; quella di un contrasto che non ammette deroghe, cedimenti, morbidezze: soltanto vincitori e vinti.

Che immensa fatica, la vita, nella contea del Wessex, alla fine dell’Ottocento! Che immensa fatica l’amore! Che immensa fatica il matrimonio! Talvolta, perfino il cielo – che dovrebbe accogliere i nostri pensieri più alti, le nostre speranze di salvezza – sembra risospingerci al suolo: ci appare come qualcosa di orrendo, come la negazione di Dio – costruito, così sembra, su una architettura che spalanca infiniti pozzi bui, pozzi infiniti di vuoto.

Non vogliamo anticipare al lettore, in poche righe inutili, i tormenti, le gioie effimere, le delusioni di Viviette e Swithin. Sappia che non mancheranno avvenimenti che cambiano tutto, nel senso che inesorabilmente modificano eventi e trama. Però, che fatica, che fatica! Anche dopo la tragica fine di tutto, continuiamo a essere schiacciati da questa fatica del vivere. E dal tempo. Lottiamo, cerchiamo di superare gli impedimenti della sorte, le astuzie e le perfidie dell’uomo; siamo quasi sul punto di farcela, e invece, inesorabilmente, la vita ci ricaccia a terra – dove sono le ossa dei nostri avi – e l’amore non si realizza.

Perché non si realizza né qui né altrove. Non si realizza mai in quella contea del Wessex: nei boschi, nelle case ricche e in quelle umili, tra le gobbe delle colline che nascondono la vista del mondo. Non si realizza per le donne mature e ferite, per gli astronomi entusiasti che studiano il transito di Venere e per gli scalpellini testardi. Non si realizza mai, nei romanzi di Thomas Hardy. Neppure quando una antica torre si staglia, con la sua metà luminosa, al di sopra degli alberi.

 

Giorgio Montefoschi

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