In occasione dell’uscita de Il gioiello della corona, Stefano Bortolussi ci racconta la sua esperienza di traduzione con il romanzo di Paul Scott, il primo della serie The Raj Quartet.
Per un traduttore che ha trascorso gran parte della sua carriera immerso nell’universo spesso metropolitano della letteratura americana contemporanea, l’impresa di dare voce italiana a un autore profondamente britannico come Paul Scott, così legato al mito dell’Impero e al luogo (l’India) in cui esso si è incarnato e ha messo radici nel modo più profondo e carico di conseguenze, aveva in sé tutti gli elementi della sfida.
Se a ciò si aggiunge il fatto che il Raj Quartet scottiano, di cui Il gioiello della corona è il primo volume, scorre sinuoso e potente come un fiume per la bellezza di quattro romanzi di maestose dimensioni, e che la narrazione stessa ha un che di fluviale, alternando l’ampio respiro del romanzo storico (il corso principale) alle divagazioni nei rami minori dei suoi affluenti, si può capire il brivido di rispettoso scoramento provato dallo scriba, già di per sé un tipo ansioso.
Lo stesso scriba, da buon appassionato (in the closet, peraltro, essendo questa la prima confessione pubblica di tale oscura predilezione) di crinoline televisive di gloriosa marca BBC, conosceva The Jewel in the Crown per averne visto, negli ormai preistorici anni Ottanta, una storica riduzione televisiva che ai tempi lo aveva lasciato con una curiosa sensazione compresa nel limbo tra tedio e incanto.
E così, dopo essersi sottoposto alla visione ripetuta di quello che un tempo si sarebbe definito un “originale televisivo inglese” (visione che ha sortito soltanto l’effetto di confermargli i passi da gigante compiuti dalle produzioni televisive negli ultimi trent’anni), il giorno fatidico lo scriba si è seduto davanti al primo foglio bianco di Word in preda a una comprensibile carenza di salivazione.
Sei mesi dopo, a primo volume concluso (e giunto ormai a poco meno di metà del secondo, The Day of the Scorpion), la sensazione dominante che il traduttore prova è quella, vagamente ossimorica, di un’umile fierezza, o di un’orgogliosa modestia: per essersi cimentato con discreto successo nell’avventura di rendere in un italiano moderno e lontano da qualsiasi deriva finto-antica una lingua sontuosa, “importante” e quasi ieratica ma spesso aperta a squarci di ironia, a digressioni immaginifiche nonché a improvvisi “distanziamenti” autoriali.
La vicenda narrata da Scott nel suo Quartetto è contemporaneamente storia e Storia: la prima, quella con la minuscola, prende il via dallo stupro subìto da una giovane inglese nella fittizia località indiana di Mayapore, dagli arresti ingiustificati effettuati per una letale combinazione di oscure vendette personali e deleteri calcoli politici e dalla rivolta che essi scatenano e si inscrive nella seconda, quella con la Maiuscola, per dipingere un affresco ampio, variegato e complesso della situazione turbolenta creatasi in India in seguito allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, chiamando in causa personaggi storici e fittizi, da Gandhi in giù, per restituirci il clima unico e drammatico della fine dell’Impero Britannico.
Nel Gioiello della corona (nonché nei romanzi successivi del Quartetto) i fatti e gli snodi cruciali della vicenda vengono visti, sviscerati e narrati da innumerevoli punti di vista, andando a formare una narrazione corale e aperta a svariate interpretazioni. Scott, non dimentichiamolo, scrisse i quattro romanzi del Raj Quartet (questo The Jewel in the Crown, The Day of the Scorpion, The Towers of Silence e A Division of the Spoils, a cui poi, non contento, aggiunse un quinto romanzo a sé stante, Staying On, in cui riprendeva alcuni dei personaggi del quartetto) tra il 1966 e il 1977; per questo, pur adottando la struttura e la lingua del romanzo classico, quasi ottocentesco, non poteva non tenere conto delle istanze e delle conquiste del modernismo – né sembra ignorare le ambiguità affabulatorie di un film come Rashomon di Akira Kurosawa (1950), nel quale lo stesso avvenimento viene riportato da più fonti contraddittorie. Lo si vede negli episodici slittamenti della narrazione nel flusso di coscienza, nei cambi spesso repentini di punti di vista e voci narranti, nella dovizia di registri adottati, da quello più comunemente introspettivo e psicologico a quello epistolare, dal burocratico al militare, per poi tornare a immettersi, riprendendo la metafora fluviale, nell’ampio corso della narrazione principale.
Traduzione, quindi, impegnativa, ma nel senso migliore del termine: quello cioè che a gioco fermo restituisce allo scriba la soddisfazione (modesta, non dimentichiamolo) di essere riuscito a dimostrare quella che il poeta e traduttore Franco Buffoni ha definito “lealtà” nei confronti dell’autore, ben diversa da un’utopistica e sterile “fedeltà”.
Stefano Bortolussi