Pubblichiamo il primo racconto selezionato tra i tanti che ci sono arrivati da voi lettori, ci scusiamo per l’attesa e vi ringraziamo per la fiducia che ci rinnovate ogni giorno.
Vuoto e pieno. Asciutto e bagnato.
Oggi è l’ultimo giorno di piscina e io non voglio uscire, non mi piace là fuori. Perché non mi piacciono i finali, i traguardi, le conclusioni.
La mia è una vita fatta di incipit, tutta costruita per inizi, di slanci nel vuoto come un tuffo per poi perdersi nella vacuità dei miei propositi liquidi, senza confini. Iniziare e mai finire.
La conclusione è un’ossessione che non mi appartiene, il risultato è un giudizio troppo severo, che ha qualcosa di religioso. Preferisco il nuoto come un’azione infinita, meccanica, un loop interminabile.
Nuoto da sempre, il lunedì, il mercoledì, il giovedì, il venerdì, il sabato e la domenica. Martedì sciopero, perché fuggo la regolarità. Mi piace l’idea di saltare un giorno, di immaginare la faccia degli altri: “Ma oggi non è venuto?”.
La piscina è un luogo sacro, la mia isola al contrario, quando entro in acqua mi sembra di toccare terraferma, di stare al sicuro. C’è una porta principale in vetro e ottone, coi vetri appannati e l’ottone ossidato. La apro, sono dentro, poi mi piace girarmi e non vedere fuori, non vedere la strada, le macchine, solo vetri appannati e l’atrio vuoto e io vuoto come l’atrio. Cammino verso gli spogliatoi e sento il rumore del ventilatore d’aria calda che fa un fracasso assordante e alla fine del tunnel eccola lì.
Vuota e piena. Asciutta e bagnata.
Circondata da una cortina di vapori i confini svaniscono e so di essere in piscina solo perché i miei piedi camminano sul pavimento di gomma fradicia, poi arrivo sul bordo che diventa ceramica e attraverso le scalette di metallo freddo, scivolo tra le coperte viscose d’acqua; allora mi metto gli occhialini e nuoto e sento che sono legittimato a perdermi sotto il volume d’acqua. Qui sotto la mia vita svanisce. La piscina si trasforma in un solido isolante e non sento più i pensieri che ho in testa, e non vedo più figure, oggetti, cose, materia, ma solo ciò che voglio immaginare o ricordare come quell’estate torrida che passai al mare in cui si giocava a carte tutto il giorno e a confondermi era la cortina di fumo del sigaro della signora che mi diceva non diventare vecchio, non serve a niente. E passai l’estate a fare una lista per evitare di invecchiare e fermare il tempo, come non festeggiare il compleanno.
Domani chiudono questa piscina, la svuotano stanotte, rimarrà solo un trampolino che si affaccia su un rettangolo, tornerà ad avere confini e forme definiti, muri, gradinate, piastrelle, entrate e uscite; tornerà a essere luogo, a poterlo descrivere come tale, si dirà è grande o piccolo, è bello o brutto, è nuovo o vecchio, potranno giudicarlo e io non voglio, mi piace pensarlo come non-luogo, uno spazio indefinito, confuso dai vapori, filtrato dai miei occhialini annebbiati, turbato dagli sbalzi di temperatura.
Ho deciso che rimarrò qui, mi nasconderò e quando tutti saranno usciti riempirò la piscina con un bicchiere, starò sveglio tutta la notte per fermare il declino di questo tempio. Per non farla invecchiare, come mio padre.
Non lo vedo spesso, lui è ancorato al passato, quando cerco di parlarci le sue parole hanno il sapore della polvere, mi impastano i pensieri, me li infestano come una ragnatela. Ricorda puntualmente di vecchi fasti, di lussi che sono stati e ora non ci sono più. Di aragoste.
Non se ne è più fatta una ragione. Vorrei rincontrare la signora col sigaro e dirle che so cosa significa invecchiare, non sono le rughe o l’artrosi, non è il corpo che cede, ma sono i ricordi: quando invecchi esistono solo quelli, il tempo trascorso.
E invece io voglio fuggire lontano da lui, dall’eternità predestinata. Io voglio essere il futuro.
Sono cresciuto in una famiglia che emulava il passato, che amava la tradizione, che iniziava ogni discorso col passato remoto: “Come disse…” ed era tutto un paragone con la generazione precedente, un conto aperto con le aspettative e i giudizi degli altri. Ero di buona famiglia, di quelle che contano, che quando passava mia madre per il corso le signore si fermavano a bisbigliare. Eravamo tutti iscritti al club di tennis, come i Moranti, i Vanesca e i Perotti. Poi avevamo la tessera del club di vela, del circolo ippico, della società Ferrini, dell’associazione benefica regionale e frequentavamo questi posti puntualmente lo stesso giorno della settimana e c’erano sempre le stesse persone e si parlava delle stesse cose: di camicie fatte su misura, della faraona al forno con arancia e del corso di tennis. Era un mondo femminile, io guardavo queste signore ingioiellate e truccate e per un periodo sono stato innamorato della mamma di Giulio perché quando mi vedeva non mi pizzicava la guancia con le unghie laccate ma esclamava sempre “che ometto!”. Sono figlio unico ed ero sempre al seguito di mia madre, la aiutavo a scegliere gli abiti e origliavo i pettegolezzi delle sue amiche.
Mio padre lavorava ed era spesso fuori casa. Lo si vedeva poco, ma decideva tutto, cosa fare, chi frequentare, chi invitare alle feste. Era un uomo serio ed estremamente noioso. Anche le celebrazioni erano una cosa da non prendere sottogamba, non c’era commedia, disinvoltura, un bicchiere fuori posto, finivano sempre come erano cominciate, senza scompigliarsi.
Le feste più importanti erano tre: Natale, Capodanno e il solstizio d’estate. Tutte si festeggiavano nella villa estiva. Avevamo infatti due case: una per starci durante l’anno, in città, e l’altra per le vacanze estive e natalizie sul mare, nel paese della nonna Angelina, che quando mi vedeva esclamava: “Potenza di Dio!”.
Questa frase la diceva ogni volta che non sapeva spiegarsi qualcosa, come le alte e basse maree, l’arcobaleno, un fiore che sboccia, ripeteva Potenza di Dio. In realtà io non avevo niente di soprannaturale, semplicemente la vedevo di anno in anno ma ai suoi occhi la mia crescita rimaneva una cosa misteriosa. La nonna Angelina aveva sposato il nonno Luigi, calzolaio, poi cuoco, tipografo e improvvisamente proprietario terriero, morto prima che nascessi, vestito di bianco, col cappello a tesa larga e il bastone in mogano, come lo ritraeva la foto in salotto.
Da Natale a Capodanno la nostra villa estiva si riempiva di persone e la Marietta cucinava, le mani infarinate, il grembiule pieno di pezzi di cibo induriti e ingialliti che staccavo per giocarci, mentre gli adulti giocavano a carte coi soldi e si arrabbiavano. Mio padre ha sempre pensato che i soldi potessero comprare tutto e per un periodo è stato così: macchine, crostacei, pranzi in hotel, pellicce, donne di servizio.
Una volta a settimana si andava nello stesso ristorante, Da Giannino, e mia madre doveva ingioiellarsi tutta e mettere l’ultimo vestito alla moda perché le signore continuassero a bisbigliare. “Buonasera Signora, sempre più bella”. A me sarebbe piaciuto avere un fratello o una sorella con cui parlare perché non si parlava mai alle cene. Mio padre era troppo impegnato a controllare le persone che entravano al ristorante e si alzava di continuo per salutare, ordinava solo un antipasto perché la cena non era una cena, ma comunque “un’occasione”; e mentre la mamma girava la forchetta nel piatto con noia io, per far passare il tempo, contavo quante persone c’erano dentro al ristorante, esclusi i camerieri.
Quando ho compiuto 14 anni ho detto a mio padre che non volevo più andarci. Non solo al ristorante ma anche al club di tennis, nella villa estiva e tutto il resto. Basta. Ero stanco di contare le persone al ristorante e la mamma di Giulio non mi piaceva più; aveva smesso di essere una visione onirica, era diventata una signora. Reale, vera, concreta.
È stato allora che ho iniziato a nuotare, di nascosto. Ovviamente quando gli ho detto che non volevo più andarci non mi ha chiesto perché, mi ha detto solo no, tu fai quello che dico io. Così ho continuato a sedermi al tavolo di Giannino, ma al posto di andare al club di tennis con i figli dei loro amici, io andavo a nuotare, al mare d’estate e nella piscina comunale d’inverno.
Per due anni né mio padre né mia madre si sono mai accorti. I granelli di sabbia che lasciavo sulle scale, le mani rugose, la pelle tostata dal sole, i capelli salati, la stanchezza tipica del mare nei miei occhi, loro mi chiedevano com’è andata la lezione di tennis. Io rispondevo bene. Per due anni nessuna lezione andò male, non un punto fuori campo.
Mentre nuotavo i miei pensieri prendevano forma, escogitavo cosa fare per non diventare come loro, io volevo accorgermi delle cose, vivere il quotidiano, guardare per terra, riconoscere i segni, distogliere lo sguardo. Loro invece erano sempre intenti a non scomporsi, a guardare dritti, non avevano tempo di piegare la testa, di preoccuparsi delle piccole cose, le lasciavano fare agli altri. La cura dei dettagli era una perdita di tempo, la grandezza la incontravano altrove e la bellezza si manifestava platealmente, ma era solo apparenza, come i gioielli.
Non c’era mai tempo per fare un passo falso, tutto doveva essere calcolato e l’obiettivo era sempre e solo uno, mantenere il livello di vita che avevano iniziato. Che per me equivaleva a non avanzare, ma a rimanere aggrappati al passato, a un ideale che si poteva riciclare. Non contemplavano di tornare indietro, di deragliare, di cambiare. Mentre io volevo vivere più inizi, diversi presenti, mi incuriosiva il fatto di provare, lasciando da parte la sicurezza, piuttosto tentare, le entrate trionfali, il sipario che si apre, un bel titolo, la ricerca della mia personale bellezza.
La distrazione per mio padre era il male, la rovina dell’individuo che nel mio caso si concretizzava nel fallimento scolastico; andavo fuori tema, non prestavo attenzione, mi distraevo. “Ma dove hai la testa?”. Mi sarebbe piaciuto rispondere “Altrove” e che lo prendesse come un segnale positivo.
Durante le mie fughe di nuoto ho conosciuto Giacobbe, il mio primo amico, sempre vestito in calzoncini corti e maglietta a righe, un paio di scarpe da ginnastica, il viso pieno di lentiggini. Lui non nuotava, collezionava sassi a forma di animale. Aveva un carattere determinato, il suo obiettivo era avere uno zoo di sassi. Con me trovò una tartaruga e una giraffa. Era ossessionato dagli animali. Per descrivere qualcuno paragonava sempre l’aspetto fisico con un animale e io che non mi guardavo spesso allo specchio ebbi la mia prima descrizione: un cane lupo, perché avevo le sopracciglia spesse e nere e gli occhi neri, lo sguardo buio. “Per me te sei un lupo”, diceva.
Stare con lui mi piaceva perché non ho mai dovuto dire chi ero, da dove venivo, non gli interessava. Lui mi faceva altre domande: “Cosa ti porteresti su un’isola deserta”.
Fantasticavamo.
Lui si sarebbe portato i due migliori sassi della collezione sia per non lasciarli in mano a sua sorella piccola, sia perché con quelli avrebbe potuto accendere un fuoco. Io invece risposi un coltello.
Mi odiai per questo, perché tutti avrebbero risposto un coltello. E sapevo che era colpa di mio padre, mi aveva insegnato a non tentare, a non fallire, a dire ciò che era ovvio, corretto.
Io non volevo rispondere un coltello, invece lo feci.
Il nuoto diventò il mio chiodo fisso, non riuscivo a farne a meno, mi rendeva libero, forte, l’acqua era la mia camera di decompressione, e sotto la realtà di tutti i giorni scompariva o almeno avevo una percezione diversa. Potevo rischiare con l’immaginazione, rompere le barriere, fare e disfare sogni, costruire architetture e poi distruggerle senza dare spiegazioni a nessuno se non a me stesso. Mi confortava il fatto che tutto sarebbe rimasto lì sotto, segreto, muto, messo a tacere da litri e litri d’acqua. Ho iniziato in quel periodo a fantasticare, a lasciare che fossero solo immagini, tutte irrealizzabili, tutti inizi bellissimi ma poi caduchi, a prendere il sopravvento. Non riuscivo mai a portare a termine niente. Costruivo dialoghi, scene, teatri e tutto fluiva, incastrato perfettamente nel mio cosmo immaginario. Poi uscivo dall’acqua ed ero di nuovo uno qualunque.
Oggi, prima di entrare in piscina, ho visto un cartellone nel negozio qui davanti in cui c’era scritto “Arriva la calda stagione” a caratteri cubitali scritto a mano e mi sono ricordato che domani è il solstizio d’estate, la data in cui ogni anno torno nella villa estiva, a trovare mio padre. Non a Natale o a Capodanno, ma il primo giorno d’estate, 21 giugno. Il giorno più lungo dell’anno, che conta più ore e luce solare, in cui il Sole si posiziona nel punto più alto dell’orizzonte.
Me ne ero dimenticato, anzi ho anche ipotizzato che non arrivasse più. Quest’anno abbiamo vissuto un inverno dalla coda lunghissima, che si è trascinato dietro la primavera e pensavo potesse inghiottire anche l’estate, coprirla con il suo manto gelato, far scomparire il solstizio.
Telefonare a mio padre e dirgli Non esiste più il Sole. Evitare di tornare al passato, spezzare il rito. Finire qui il racconto e intitolarlo “Di un inverno che aspettava la primavera, e di una primavera che aspettava l’estate”.
Invece tutto volge al termine, domani 21 giugno io torno da mio padre e la piscina chiude.
Ogni volta che finisce qualcosa, penso a quel giorno, quando sono tornato a casa dopo aver nuotato.
Avevo 16 anni, tra me e mio padre ormai non c’era più dialogo, poteva essere anche il vicino di casa, il prete della chiesa, il macellaio, qualcuno che conosci, che saluti per tutta una vita ma con cui sai di non condividere niente e a cui sai che non chiederai mai aiuto, non racconterai mai i tuoi sogni, le tue paure, ti limiterai a rimanere in superficie come la goccia d’olio nell’acqua: tra me e lui esisteva solo questo primo strato. Quel giorno stavo vestendomi per andare da Giannino quando entrò in camera e disse: “Non c’è bisogno che ti vesti. Oggi non andiamo da Giannino.”
“Perché?” era la mia solita domanda ai suoi dictat, a cui non trovavo mai risposta, e infatti disse: “Neanche la prossima settimana. E da fine anno puoi smettere di andare al club di tennis”.
E io sentii una sensazione contrastante.
Vuoto e pieno. I miei capelli ancora umidi dal mare, ma la gola secca.
Asciutto e bagnato.
Scesi in cucina, mia madre piangeva con la donna di servizio e origliai.
“Abbiamo perso tutto… Questa è una rovina”.
Non ho mai saputo con esattezza cosa fosse successo, nessuno me lo disse, ma da quel giorno iniziò il declino, iniziò il passato, il guardarsi indietro, i ricordi dei fasti che furono. L’unica cosa che non cambiò fu il bisbigliare delle signore.
Ci fu qualche appello in Tribunale, e poi mio padre si chiuse la porta di casa dietro alla spalle e non la volle più aprire. Avevo 17 anni e tanta voglia di andarmene, come un prurito che mi invadeva e non mi lasciava in pace. Mi iscrissi all’Università di Belle Arti, a mio padre dissi che ero iscritto a Medicina, perché ero convinto che prima o poi l’avrei curato, se non con le medicine, con le parole.
Nei primi anni universitari non sapevo cosa fare, non avevo nessuno e non avevo soldi. Iniziai a lavorare come parcheggiatore e allo stesso tempo ad amare l’odore delle macchine nuove perché era il segnale concreto dell’inizio di qualcosa, fantasticavo sulla pelle degli altri: ha avuto un bambino, un aumento al lavoro, ha vinto la lotteria, è stato il suo compleanno, che bel regalo.
Mi alzavo presto alla mattina. Assistevo alla prima lezione di ogni materia con furore. E continuavo a nuotare, ogni giorno tranne il martedì. Conobbi Giacobbe, non quello dei sassi, un altro. Amante della bella vita, frequentava i bar e la case degli altri ma di se stesso non parlava mai, nessuno sapeva chi fosse, solo che era iscritto a Belle Arti. Era il tipico da pacca sulla spalla e sorriso, sempre di buonumore, con una storia avvincente da raccontare. Mi lasciavo trascinare da lui, suonava il campanello e col fiatone mi diceva “Scendi. Andiamo a una festa”. Era spesso di corsa, intento a vivere quante più vite possibili, proiettato sul domani. Così lo seguivo ovunque, io ero un testimone silenzioso, stavo in disparte ma assaporavo le sue avventure, mi facevo coinvolgere dalle persone che incontravamo, le lasciavo parlare inebriate dal vino mentre io osservavo e tessevo le loro sorti immaginarie. Insieme a lui sono entrato in un sacco di appartamenti.
Mi fissavo sugli atri: com’erano gli inizi delle case? Che cosa volevano mostrarci per primo le persone? Poster di film, quadri, la cassetta delle chiavi, bacheche di cartoline, cappotti appesi, vecchi scatoloni di traslochi, souvenir di viaggi esotici, un semplice tappeto. Rimanevo a fissare questi preludi di vite mentre Giacobbe li attraversava senza rispetto fiondandosi nel cuore delle loro esistenze, non curandosi di questi brevi inizi.
Furono anni divertenti, poi Giacobbe sparì. Scoprii che non era neanche iscritto all’Università. Scoprii di non conoscerlo. Non sapevo neanche dove abitasse. Con lui svanirono tutte le notti stellate e le feste a casa degli altri.
Appena laureato vinsi un concorso pubblico per diventare bibliotecario. E la biblioteca diventò la mia seconda casa.
Leggere e nuotare sono due sensazioni simili, che hanno a che vedere con il silenzio, e di conseguenza con l’evasione. Sono anticamere di immaginazione. Essere circondato dai libri mi piace, catalogare le storie, conoscerne gli autori. Di quasi tutti ho letto i primi paragrafi e ne ho iniziati centinaia, rigorosamente lasciati a metà. Una fila di incipit meravigliosi, ogni settimana un esordio strepitoso.
Ogni settimana un autore nuovo da idolatrare, facendolo diventare il mio preferito poi rimpiazzandolo senza pudore né rimorso da quello successivo. Accumulo personaggi e storie senza concluderli. Preferisco rimanere nel limbo del racconto, presumere tanti finali contrastanti tra di loro, diverse possibilità. Muovere i personaggi come più mi piace, associare le persone che frequentano la biblioteca con le trame dei libri. Mescolare realtà e finzione.
Soprattutto stare in biblioteca mi piace perché a differenza dei club che frequentavo, le persone sono tutte diverse, di estrazione sociale opposta, con interessi disparati.
C’è un signore che viene tutti i giorni alle dieci: ha uno zaino da cui tira fuori una busta già affrancata senza direzione, e un foglio scritto a metà; ogni giorno aggiunge una riga, ma da un anno è sempre lo stesso foglio. Credo che abbia paura di finirla, forse come me è spaventato dalla conclusione e preferisce rimanere a metà, andare a letto con il pensiero che può ancora cambiare qualcosa. Forse scrive a suo padre.
Forse dovrei anche io scrivere al mio.
Domani lui mi aspetta, non posso mancare perché sono 364 giorni.
È arrivata la calda estate! Inizia una stagione, io e lui ci vediamo durante il giorno più lungo dell’anno per recuperare tutte le volte in cui non ci siamo visti; domani voglio colmare il silenzio di una vita, imbottirlo di parole.
Potrei raccontargli la mia, di vita, del nuoto a 14 anni, dei miei due amici di nome Giacobbe, di tutti i libri che ho letto. Al contrario vorrei che lui non parlasse del passato, di quella volta che smettemmo di andare da Giannino, chi se ne importa di saperlo, del passato, vorrei che quando il Sole raggiungesse lo zenit un caldo infernale gli cancellasse la memoria e potesse riniziare tutto da capo.
Ma prima di partire devo riempire la piscina. Come lo zoo di sassi di Giacobbe, questa sarà la mia impresa impossibile. Esco dall’acqua, il costume sgocciola, le palline di separazione della corsia ondeggiano. Hanno già iniziato a svuotarla, che orrore. I due custodi si parlano “Da domani mare, mio caro!”.
Aspetto nello spogliatoio che tutti se ne vadano, e quando il custode chiude la porta, fuori c’è ancora un po’ di luce.
Quando l’ultimo bagliore se ne andrà la città si tingerà di grigio, il colore dei ratti ma anche il colore dei sogni. Questa capitale è come un ratto che vuole nascondersi, che fugge dalla luce e vive nell’ombra della bellezza che fu, una città sognata poi abbandonata ai deliri del tempo e ora signora di un fascino consumato, di una seduzione non scontata. A me piace perché è anonima.
Torno verso la piscina e la guardo. Vuota, rivestita di piastrelle, il trampolino che la sovrasta.
Decido di salirci su per osservarla dall’alto, in tutta la sua pienezza. Appare fredda, gelida, da quassù così distante che ho le vertigini. Se penso a quante volte mi ci sono buttato lasciandomi cullare dall’acqua, eppure ora incontrerei solo un solido. Lancio un grido e riecheggia, poi viene inghiottito dal tombino. Non posso buttarmi, domani inizia l’estate.
Scendo le scale e prendo una piccola cisterna abbandonata a bordo piscina, la riempio con l’acqua della doccia e la verso in piscina. Non so quante cisterne ci vogliano per riempire l’intera vasca olimpionica lunga 50 e larga 25 metri, dovrei fare un’operazione matematica, ma lascio perdere. Mi concentro nel trasporto del liquido. Dopo dieci viaggi ho il sospetto che l’umidità del posto faccia evaporare l’acqua perché non percepisco il minimo riempimento, solo chiazze bagnate dopo una tempesta.
Ma ancora è presto, è appena iniziata la notte, non mi scoraggio, è solo l’inizio. Riempio e svuoto. Le braccia mi fanno male ma lo sforzo fisico mi gratifica, mi fa sentire potente. Non voglio che questo posto muoia, non posso abbandonarlo, lasciare che la muffa viscosa corroda gli angoli, che il mio tempio appartenga al passato, che sia solo un ricordo come mio padre. Deve continuare a esistere verso il futuro.
Continuo a riempire la vasca, di più, di più, senza sosta. Le ore passano, fuori il buio.
È mezzanotte: inizia ufficialmente il solstizio d’estate. Mio padre mi aspetta.
Con questo pensiero in testa, credo di addormentarmi.
Quando mi sveglio sono steso a bordo piscina, abbracciato alla cisterna; il custode mi fissa senza espressione. Decido di non prestargli attenzione e mi giro di scatto verso la piscina per contemplare la mia opera finita. Ma come tutte le cose, non sono riuscito a portarla a termine, è un altro inizio senza fine come i tanti libri che mi affollano la testa, e come ogni nuovo esordio mi appare grandioso, una nuova dimensione, un altro viaggio. Un nuovo anno da inaugurare con mio padre.
Scendo le scalette di metallo e cammino a grandi passi fino al centro della vasca. Rimango nel punto mediano della piscina, le caviglie appena coperte dall’acqua. Mi guardo attorno e penso che questo sia il mio incipit migliore, l’inconclusione più grandiosa, un inizio meraviglioso.
Fuori c’è il sole.
Elisa Sabatinelli