Introduzione di Cathleen Schine a «Un incantevole aprile» di Elizabeth von Arnim

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Elizabeth von Arnim scrisse Un incantevole aprile nel 1921, all’età di cinquantacinque anni. E leggendo un romanzo così gradevole e fresco si tende a dimenticare che l’autrice era in realtà figlia dell’epoca vittoriana, più affine, dal punto di vista anagrafico, all’arcigna Mrs Fisher che alle tre giovani donne che trascorrono il mese di aprile nello splendido castello italiano. Mary Annette Beauchamp nasce nel 1866 in Australia e a tre anni si trasferisce con la famiglia in Inghilterra. Nel 1898 è già un nome – anzi, uno pseudonimo – ben noto nel mondo letterario edoardiano: conosciuta come “Elizabeth del giardino”, tale rimarrà per il resto della sua vita.
Nel 1889 Mary Annette, May per la famiglia, soggiorna a Roma con il padre. Qui incontra il conte Henning August von Arnim, vedovo e decisamente in là con gli anni, che inizia a seguirla dapprima per le scalinate romane, poi per i viali alberati di Bayreuth con l’intento di chiedere la sua mano. Si sposano nel 1891 a Berlino, e per entrambi comincia una vita di coppia rigidamente delimitata dalle consuetudini dell’aristocrazia prussiana. Successivamente si trasferiscono a Nassenheide, in Pomerania, nella tenuta da 3.200 ettari dove sorge il castello dei von Arnim, uno schloss del Seicento disabitato da venticinque anni. Fu là, in quella «bellissima e remota dimora», che nel 1898 la contessa von Arnim mise per iscritto l’esperienza di reclusione che era per lei la vita di campagna. Il giardino di Elizabeth ebbe un successo strepitoso, con dieci ristampe nel primo anno di pubblicazione. Alla fine del 1899 si contavano ventuno ristampe per un libro che era diventato una presenza irrinunciabile nella biblioteca di qualsiasi signora edoardiana, sia in Inghilterra sia negli Stati Uniti, e che ancora oggi continua a essere pubblicato. Penelope Mortimer, ricordando sua madre come un’appassionata lettrice de Il giardino, sottolineava come in esso «alcune descrizioni della natura fossero fin troppo liriche, ma dopotutto anche lo stile di Wordsworth era simile». Presentandosi soltanto con il nome “Elizabeth”, l’autrice stimolò la curiosità dei lettori, che si divertirono a risolvere il mistero di chi fosse l’anonimo autore del “romanzo”. Era un uomo o una donna? Era inglese o americano? Che età aveva? “Finalmente!”, annuncia un titolo del «New York Times» un anno dopo l’uscita del libro, quando viene rivelata l’identità di “Elizabeth”, che tuttavia continuerà a firmarsi “Elizabeth del giardino”, o più semplicemente “Elizabeth” per il resto della sua lunga carriera letteraria.
«È il giardino il posto in cui vado a cercare rifugio e riparo, non la casa. In casa ci sono doveri e seccature, servitù da esortare e ammonire, mobili, e pasti; ma là fuori i doni del cielo mi si affollano intorno a ogni passo…», dichiara Elizabeth nel suo primo romanzo, dove appare l’esigenza di sottrarsi ai doveri che gravavano su ogni lady dell’Ottocento. Bisogno che troverà nuovamente voce e sarà espresso con maggiore intelligenza e consapevolezza in Un incantevole aprile, riferendosi al destino della donna novecentesca. Intanto, è il giardino il luogo dove si cerca rifugio.
L’idillio romantico de Il giardino di Elizabeth è anche l’agile e divertente racconto della vita insieme al Conte, affettuosamente soprannominato “l’Uomo della Collera”, e alle loro tre figlie. In seguito Elizabeth ebbe altri due figli, una femmina e un maschio, anche loro poco portati per lo studio nonostante precettori del calibro di E.M. Forster e Hugh Walpole. Nessun precettore riuscì a resistere più di sei mesi a Nassenheide: sono sufficienti poche frasi dal diario del giovane Walpole per capirne il motivo:

15 aprile. Severa strigliata da parte della contessa, che ho subíto con atteggiamento abbastanza sottomesso.
19 aprile. La contessa mi ritiene “farouche”, e devo dire che non ho mai percepito così tante costrizioni come in questo luogo.
25 aprile. Dopo cena la contessa ha strigliato per bene il mio romanzo.

«La contessa», scrive Walpole a un amico, «è un enigma totale. Non la vedo granché, ma quando capita la trovo in uno di questi tre stati o umori: 1) incantevole come i suoi romanzi e anche di più (non accade spesso); 2) massacrante, senza pietà, ti attacca da ogni lato fino a stremarti e tu diventi un idiota: a quel punto lascia la presa e ti accasci a terra come uno straccio; 3) silenziosa. L’umore peggiore di tutti. Se ne sta seduta senza aprire bocca, e se cerchi di dire qualcosa, lei ti ignora».
Nonostante le sfuriate della contessa, la vita a Nassenheide trascorreva abbastanza serena, tra picnic e lunghe camminate, nel giardino ormai famoso che, nelle parole di Walpole, era «bello in modo selvaggio e primitivo». L’amore di Elizabeth per la natura selvaggia e libera ricorre, insieme all’idea di evasione, in tutte le sue opere e nella sua vita. Convincendo il conte a trasferirsi a Nassenheide, Elizabeth si scrollò di dosso le costrizioni della società prussiana. Rimasta vedova, considerò di trasferirsi in Inghilterra, ma gli orizzonti limitati e l’umidità la scoraggiarono, perciò scelse le montagne svizzere. «Cambiai aria. Le vedove possono spostarsi e cambiare aria scegliendo luoghi e stili di vita sconosciuti alle mogli», scrisse in seguito. E tra le montagne svizzere fece costruire lo Château Soleil, uno chalet vasto e inaccessibile, «il nostro nido sulla montagna». Il romanziere Frank Swinnerton, uno dei tanti ospiti che si autoinvitavano o facevano tappa al castello mentre erano in viaggio, lo descrive come «un palazzo fiabesco consacrato all’ozio», e fu là che Elizabeth tenne compagnia alla cugina morente, Katherine Mansfield (Kathleen Beauchamp), che si era trasferita in uno chalet poco distante. «Ce ne stavamo nella mia camera da letto a parlare di fiori finché non eravamo stordite», scrive Mansfield. Nel 1914, in mezzo al flusso costante di ospiti inattesi, appare colui che sarebbe diventato il secondo marito di Elizabeth, che così ne descrive l’arrivo: «Veniva su per il sentiero ghiacciato che conduce alla porta principale […] e non sembrava un ospite, era il Destino in persona […]. Indossava calosce sugli stivali, con inserti di tessuto sui lati e i pantaloni infilati dentro, e un colletto bianco inamidato. […] Se fosse rimasto, era chiaro che non avrebbe mai messo fuori neppure la punta del naso, e io sarei rimasta dentro con lui. Insieme, seduti e ancora inconsapevoli, ci saremmo avvicinati inesorabilmente ai nostri Destini». «Dentro»: per la Elizabeth del Giardino è tra quattro mura che risiede il destino tragico.
La guerra obbliga Elizabeth ad abbandonare il castello per rifugiarsi in Inghilterra dove, nel 1916, sposa “Destino”, all’anagrafe John Francis Stanley Russell, secondo conte di Russell, fratello maggiore di Bertrand Russell. Il matrimonio è un disastro, e in capo a un anno Elizabeth lascia il marito. Non divorziano, ma lui la porta in tribunale con l’accusa assurda di furto, avvenuto nel momento in cui Elizabeth lascia la casa dove hanno vissuto e i traslocatori portano via mobili e oggetti personali. A detta di tutti John era tutt’altro che una persona gradevole, e nel romanzo Vera, dove esamina gli effetti dell’amore tirannico sulla luminosa innocenza di una donna, Elizabeth si ispira a lui per creare il personaggio del marito, un cattivo del calibro del Mr Kennedy di Trollope o del Grandcourt di Eliot; un marito di una freddezza devastante, sadico ed egocentrico.
Elizabeth comincia a scrivere Un incantevole aprile subito dopo aver finito Vera, mentre è in vacanza in Italia. Il castello medievale del romanzo si ispira a quello reale di Portofino, affittato dall’autrice insieme ad alcuni amici nel mese di aprile del 1921. Le descrizioni poetiche del luogo finirono per renderlo una meta ambita dai viaggiatori amanti della letteratura, tanto che, quando Vita Sackville-West vi portò la cognata a trascorrere la convalescenza, Harold Nicholson diede la colpa «alle edizioni Taschnitz dei romanzi di Lady Russell».
Dopo il terrificante Vera, Elizabeth voleva scrivere qualcosa di allegro; in fondo cosa c’era di più allegro di quattro donne che sfuggono ognuna alla propria gelida solitudine arrendendosi al calore di San Salvatore? «[Alla] pura felicità per l’armonia con ciò che la circondava, la felicità che non chiede nulla e semplicemente accetta, respira, esiste», pensa Mrs Arbuthnot, donna austera e religiosa che si è allontanata dal marito perché scrive biografie sulle amanti dei re, soggetto inesauribile e remunerativo ma, ai suoi occhi, sconveniente. Mrs Arbuthnot incontra Mrs Wilkins, una triste donnetta insignificante sposata con uomo che la domina pur non facendo quasi caso alla sua presenza, «a Londra in un club per signore, un pomeriggio di febbraio – per nulla confortevole il club, malinconico il pomeriggio…», dopo che entrambe hanno letto un annuncio sul «Times» rivolto agli «estimatori dei glicini e del sole». Così si conoscono e comincia una commedia degli errori in cui in realtà nessuno ne commette, poiché tutto va a gonfie vele, a meraviglia, e come dice Mrs Wilkins, si sta in paradiso.
Le due signore trovano altre due compagne di viaggio per sostenere i costi del glicine e del sole: l’assurda Mrs Fisher, ossessionata dalla propria rinsecchita rispettabilità («non era arrivata a sessantacinque anni per niente») e Lady Caroline, una giovane talmente bella da «non potersi mai mostrare sgradevole o maleducata senza essere fraintesa». Quest’ultima vorrebbe sottrarsi all’ammirazione altrui per un mese; Mrs Fisher, invece, spera soltanto di starsene seduta in pace per evitare il futuro e la sua volgarità rifugiandosi nel polveroso passato vittoriano della sua immaginazione. Mrs Arbuthnot, da parte sua, vuole sfuggire il freddo torpore di una vita dedicata alle opere di bene, mentre Mrs Wilkins desidera semplicemente starsene lontana dal marito, un avvocato ambizioso che «lodava la parsimonia, tranne quando si trattava del cibo che finiva nel suo piatto».
La grande riuscita di questo romanzo dalla trama delicatamente schematica consiste nell’esplorazione – affidata alle quattro donne – dei fondamenti dell’amore, della bellezza e della felicità. Ma scrivendo di donne che si ribellano a un mondo di uomini, Elizabeth sa essere talmente sensibile all’infelicità di ognuna, alle differenze sottili tra un’infelicità e l’altra, che non si percepisce la minima traccia di polemica. Insieme al bisogno di libertà, Elizabeth ne ammette un altro, quello di amare ed essere amata, e ne scrive con rispetto e intransigente tenerezza, rifiutando tuttavia di abbandonare le sue donne ai capricci del mondo maschile, mentre, con la generosità che appartiene a San Salvatore, non abbandona neppure gli uomini al loro destino di tristezza e solitudine. Pur armata di un’arguzia che non risparmia nessuno, Elizabeth sa anche perdonare, e riversa sui suoi personaggi tutte le gioie e le fortune che lei stessa aveva trovato nel suo giardino tedesco vari decenni prima: libertà e fiori.
In questa descrizione del giardino di San Salvatore troviamo non soltanto una festa di colori e abbondanza, ma anche verbi impregnati di energia e movimento:

Il glicine scendeva a cascata in un eccesso di vigore, fiorendo generoso […], il sole incendiava cespugli di gerani scarlatti, masse di nasturzi, calendule di un arancione talmente intenso che sembravano ardere, e bocche di leone rosse e rosa, tutti che gareggiavano in brillantezza e intensità di colore. […] Il colore si riversava dappertutto, colori uno sull’altro a strati, colori che scorrevano a fiumi […], i giaggioli e la lavanda […] qui erano presi nel tumulto rigoglioso dei denti di leone, delle margherite e della cipolla selvatica con le sue campanelle bianche.

La bellezza di Un incantevole aprile è libertà, la libertà è bellezza, ed entrambe portano inesorabilmente all’amore.
«Per temperamento non può fare a meno di immaginare che la felicità sia sempre dietro l’angolo», scrive una delle figlie di Elizabeth a proposito della madre, e nel romanzo, fortunatamente, c’è grande abbondanza di angoli dietro i quali si nasconde la felicità. È un romanzo sulla bellezza bello a sua volta; parla dei sensi ed è sensuale, ma soprattutto, parlando di felicità rende felice il lettore. Insomma, tutte le cose belle che Elizabeth von Arnim regala alle sue pallide e tremanti eroine inzuppate di pioggia londinese, le regala anche al lettore. Un incantevole aprile è un romanzo molto generoso, perciò il lettore lo vive come un dono.
Qualche anno dopo aver scritto Un incantevole aprile, Elizabeth inviò una lettera a Hugh Walpole, ormai suo amico intimo, firmandosi così: «La tua ora e per sempre affezionatissima Elizabeth nata Beauchamp, vedova Arnim e adesso, sfortunatamente, Russell». La vita sentimentale di Elizabeth, benché priva dell’armonia che concesse alle ospiti di San Salvatore, restò sempre attiva. Ma la sua vera e costante identità, spogliatasi del cognome da nubile e da quelli da sposata, fu il nome “Elizabeth”, il nome che rimase anche dopo vari amanti, tra cui H.G. Wells, che la chiamava “E minuscola” e che subito dopo ebbe una relazione con Rebecca West, una delle sue tante donne. La parodia di Wells vive nel personaggio di Edward Ingram, l’artista divinamente egocentrico protagonista di uno dei più bei romanzi di Elizabeth, La moglie del pastore, mentre la relazione con Michael Frere, di trent’anni più giovane, all’epoca caporedattore della casa editrice Heinemann, ispira sia il romanzo Amore sia Un incantevole aprile, dove ad alcuni è sembrato di scorgerlo nella figura del tenero e ardente Mr Briggs, il proprietario del castello alla ricerca di una madre-amante. E forse qualcosa di Frere si ritrova anche nel personaggio del giovane ammiratore in Mr Skeffington, il suo ultimo romanzo.
Una recensione di Mr Skeffington con il titolo “Il giardino autunnale di Elizabeth” apparve su «Time Magazine» nel 1941, quando l’autrice aveva settantacinque anni. «L’estate passata», scrive il recensore, «l’autrice si è trasferita dalla sua villa nel Sud della Francia al Dublin Inn di Dublin, nel New Hampshire. In autunno, alla guida della sua piccola automobile, è scesa in South Carolina, fermandosi a Beaufort, ospite della Gold Eagle Tavern. La scorsa settimana, lei e Billy, il suo cocker spaniel, sono stati visti godersi la primavera. La contessa Russell, uno scricciolo di un metro e cinquanta, occhi grigi e tanto brio, ai tempi della sua vita in società fu definita da Alice Meynell una delle tre persone più spiritose dell’epoca. Oggi ama starsene da sola, e il fatto che non rilasci interviste dal 1926 è assai apprezzato dagli intenditori».
Morì a Charleston quello stesso anno. Le sue ceneri furono portate in Inghilterra, nel Buckinghamshire, e sepolte in St. Margaret’s Church. Sulla lapide si legge: «PARVA SED APTA», frammento di una frase scritta da Ariosto sopra la porta della sua dimora a Ferrara. «Piccola ma adatta»: Elizabeth von Arnim fu sempre meravigliosamente in sintonia con tutto ciò che la circondava.

Cathleen Schine

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