Introduzione di Rachel Cusk a «La grande fortuna»

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«Io non ho genitori», afferma Harriet Pringle, eroina e nume tutelare della trilogia dei Balcani di Olivia Manning. «Perlomeno non che io sappia. Hanno divorziato quando io ero piccolissima. Si sono risposati entrambi e nessuno dei due ha ritenuto opportuno prendermi con sé. È stata zia Penny a crescermi. Ma ero una seccatura anche per lei e, quando combinavo qualche marachella, mi diceva: “Non mi stupisce che mamma e papà non ti volessero bene”».

Se si potesse condensare in poche righe un progetto corposo ed eterogeneo come la trilogia dei Balcani, quelle righe sarebbero le parole di Harriet. In effetti, riuscire a comprimere la struttura generale in un minuscolo frammento è ciò che contraddistingue un’opera d’arte e, in questo senso, l’essenzialità della trilogia dei Balcani è alquanto deludente. Il cuore depauperato di Harriet è il leitmotiv portante delle mille e più dense pagine del ciclo narrativo: la mancanza di affetto genitoriale di un’anonima ventunenne inglese assurge a metafora centrale della guerra, della migrazione, del cataclisma e della morte del vecchio mondo nell’Europa degli anni Quaranta.

Tuttavia, è proprio in virtù di questo parallelismo insolito e sorprendente che la trilogia dei Balcani conserva tutta la sua freschezza e si impone per la sua magnificenza. Nei romanzi che la compongono, l’Europa in tempo di guerra viene rappresentata come un mondo di uomini e donne emotivamente anemici, di persone affamate dalla reticenza e dalla freddezza della loro infanzia (o educazione?), di una generazione intera che soffre per la mancanza di attenzione, approvazione e amore; una mancanza così radicata nella natura delle istituzioni e degli atteggiamenti sociali (inglesi) che solo la distruzione indiscriminata potrebbe cancellarla. Indifferenza, ingiustizia, crudeltà, odio, abbandono: nella trilogia dei Balcani sono questi gli elementi costitutivi della memoria personale e della realtà sociale, dell’infelicità privata e della violenza pubblica. Secondo l’analogia di Olivia Manning, la guerra è opera di bambini infelici; ciononostante, se Harriet incarna il lato oscuro di questa concezione, rappresenta anche la lotta individuale per confutarla. La determinazione di Harriet – contro ogni genere di provocazione – a salvare il suo matrimonio, a restare invece di fuggire, a conservare anziché distruggere, è l’altra guerra privata del romanzo.

Manning diceva che i momenti più felici per lei erano quando scriveva della sua vita, e gli eventi narrati nella trilogia dei Balcani e nella trilogia del Levante corrispondono perfettamente a quelli avvenuti tra il 1938 e il 1946, anni che la scrittrice trascorse in Romania, Grecia, Egitto e, in seguito, Palestina con il marito, il socialista R.D. “Reggie” Smith il quale, esonerato dall’obbligo di leva per problemi alla vista, lavorava come docente per il British Council. Guy e Harriet, sposi novelli che arrivano in Romania alla vigilia della dichiarazione di guerra alla Germania da parte della Gran Bretagna, sono gli alter ego manifesti di Olivia e Reggie; e la narrazione, naturale, ricca di accadimenti e coincidenze, dettagliata, densamente popolata da personaggi minori, conferma che Manning aveva un dono per la scrittura. Tuttavia la sua presenza autobiografica in questi romanzi è sorprendentemente calamitata dal mondo: lei non si trova lì per descrivere se stessa, bensì per testimoniare. I suoi occhi e le sue orecchie sono perfettamente all’altezza dell’immenso affresco della guerra; la sua Bucarest del biennio 1939-1940 è lacerata dall’inquietudine e dal mutamento dei valori politici, invasa da stranieri di ogni sorta – scribacchini, portaborse, diplomatici, girovaghi, profittatori – messi a nudo dall’inopportuno deflagrare del conflitto, ed è rappresentata in maniera tanto vivida e meticolosa che alla fine il lettore ha l’impressione di sapersi orientare tra le sue strade caotiche e di poter riconoscere metà della clientela dell’English Bar.

Gli “individui” di Manning sono più che personaggi letterari: sembrano piuttosto veri esseri umani che si trovano per caso nella cornice narrativa, come passanti immortalati in una fotografia. E difatti la trilogia dei Balcani rispecchia così fedelmente il senso della vita vissuta che spesso è difficile percepire la mano che le dà forma. Le conversazioni prolisse degli uomini e quelle mordaci delle donne, le ore che Guy ama trascorrere a discutere di politica con i compari della Legazione britannica, le serate al ristorante che talora sono di una noia interminabile, talora uno spasso assoluto, la configurazione di una stanza, di una strada, la vetrina di un negozio, il lento scorrere del tempo e delle stagioni, soprattutto l’andirivieni delle altre persone, note o meno note, grazie a un processo che pare completamente casuale e da cui però la vita dipende profondamente, per struttura e per forma: questo fiume narrativo è da un lato la bellezza assoluta e dall’altro il mistero centrale della trilogia dei Balcani.

La “verità” delle esperienze di una scrittrice o di uno scrittore è difficile da dipanare, ma il luogo in cui cercarla in questi romanzi è la sorprendente indifferenza del punto di vista. La mano che dà forma, ci accorgiamo, è quella di Harriet; è sua l’anima recondita che occupiamo; è lei che osserva, che presta attenzione, e che tuttavia di rado attira la tensione narrativa su di sé. Quando, da lettori, agogniamo una dimostrazione di buonsenso da questo cosmo fittizio, un briciolo di attenzione, un’elargizione disinteressata di affetto, è il desiderio di Harriet che stiamo provando. E mentre passiamo dall’ammirazione per Guy, docente di letteratura inglese e inguaribile socialista amante della compagnia, a un disincanto critico che comunque non ammette la possibilità di respingerlo o di abbandonarlo, stiamo rivivendo ogni vicissitudine del viaggio solitario di Harriet nella vita coniugale.

Ciò che Guy rappresenta nella trilogia dei Balcani è una visione della società come unica forza possibile dalla parte del Bene e, in tal senso, egli si oppone all’individualismo emotivo incarnato da Harriet. Guy darebbe il suo ultimo penny a un mendicante, le sue ultime energie a uno sconosciuto per strada; Harriet invece desidera l’esclusività, l’attenzione, il possesso. «La sua stazza le dava un’illusione di sicurezza, poiché quello era, e Harriet se ne rendeva ormai conto: un’illusione. Guy era un porto che si era rivelato troppo poco profondo: non v’era modo di entrarvi. Per lui, i rapporti personali erano accessori. La sua realizzazione risiedeva nel mondo esterno». Questo conflitto, ovviamente, non riguarda soltanto Guy e Harriet: è la dialettica del ventesimo secolo, l’essenza della lotta per la creazione di un nuovo ordine sociale. È interessante che sia proprio la dedizione di Guy “al mondo”, e il suo contestuale rifiuto a concedere a Harriet le attenzioni che desidera, a infonderle “sicurezza”, poiché la riporta alla sensazione iniziale di non essere amata. Harriet si sente ripetere continuamente che Guy è un “grande uomo”, un “santo”, e in questo modo giungiamo a capire che non è soltanto Harriet a sentirsi sicura accanto a Guy, il quale vive il desiderio emotivo come una forma di vergogna. Anche altri – molti altri – hanno la stessa percezione. Quello che Guy (come metafora del socialismo) rappresenta per gli altri è una specie di soggettività estrusa, in cui il “desiderio” è distinto dall’“io”, e Manning illustra abilmente la ragione per cui una tale rappresentazione appaia virtuosa. Per Harriet, e per quelli come lei, essa richiede una nuova disciplina di abnegazione che richiama misteriosamente quella precedente; offre sicurezza, o meglio, “un’illusione di sicurezza”.

È nel rapporto di Harriet con l’amico Clarence, membro della Legazione britannica a Bucarest e anima persa, che queste idee vengono esplorate. Quando Clarence cerca di raccontarle della sua triste infanzia, Harriet prova una violenta resistenza. «Non pensarci più; non parliamone più», lo invita con il pensiero. «Harriet capì che Clarence, avendone la possibilità, l’avrebbe reclusa nel suo universo privato». E Harriet si conosce abbastanza bene da comprendere che, in quel senso, Clarence è identico a lei. «Cos’è che desideravano entrambi? L’attenzione esclusiva, senza dubbio: l’attenzione che da piccoli era mancata a entrambi. Paradossalmente, ora che le veniva offerta, Harriet non la voleva. Si sentiva attratta dal buonumore e dalla socievolezza di Guy e dal mondo aperto intorno a lui». In seguito, in una scena straordinaria, Harriet partecipa alla “smutandata” (uno scherzo tra ragazzi in cui si strappano via i pantaloni a qualcuno) di Clarence a casa dei Pringle, con Guy e quello zoticone del suo amico David. David, un bullo, identifica Clarence come vittima e Harriet si scopre «colta dallo stesso desiderio di fare del male a Clarence». Una volta che Clarence se n’è andato, Harriet si chiede:

«Cosa ci è preso? Perché lo abbiamo fatto?».
«Era uno scherzo», replicò Guy anche se non sembrava sicuro di quel che stava dicendo.
«Insomma, ci siamo comportati come bambini», disse Harriet e subito le venne in mente che in effetti, per la vita che conducevano, non erano abbastanza cresciuti.

Nel prosieguo di questa vasta opera, si rafforza la consapevolezza che i personaggi soffrono per la mancanza di qualcosa, ovvero ciò che impedisce la loro crescita e li rende nient’altro che bambini troppo cresciuti è l’esperienza trasformante dell’amore. In tal senso, il sagace controllo che Manning ha sui suoi personaggi si palesa nel modo più ingegnoso, poiché questa mancanza pervade ciascuna delle numerose figure del ciclo. La slealtà di Lush e Dubedat, i colleghi di Guy, la codardia morale di gretti funzionari come Dobson, la ricerca di attenzioni di Sophie Oresanu, la gentilezza ampollosa di Inchcape o di Alan Frewen e, soprattutto, l’egoismo infantile ed ermetico della bestia nera di Harriet (e capolavoro di Manning), Yakimov; più e più volte Manning suscita nel lettore non disprezzo bensì compassione per questa umanità mutilata, ci incoraggia a vederli più come creature danneggiate che mostri. Manning era una pittrice di talento che un tempo aveva creduto di poter perseguire la carriera artistica e spesso sono proprio i ritratti fisici dei personaggi a trasmettere nel modo più potente la loro solitudine. In questo mondo di emozioni represse, è il corpo a parlare, ad assumere forme meschine e talvolta grottesche.

Il professor Pinkrose era un uomo di corporatura rotonda, tutto spalle strette e fianchi larghi, che andava allargandosi dalla punta del cappello all’orlo del pastrano. Il naso, tozzo e grigiastro, spuntava tra il colletto e la tesa del cappello. Gli occhi, bigi come la pioggia, si guardavano intorno, attenti e sospettosi, come quelli di un camaleonte.

Più avanti nella narrazione, quando per Harriet giunge infine la breve esperienza trasformativa dell’amore, lei la percepisce come la demolizione di quella solitudine formale, di isolamento fisico.

Quell’affinità [tra Harriet e Charles Warden] li sbalordiva. Sembrava magia. Si sentivano vittime di un incantesimo che temevano di infrangere. Sebbene non riuscisse a individuare le singole analogie, talvolta Harriet immaginava che Charles fosse la persona che più le somigliava al mondo, il suo doppio.

I lettori moderni della trilogia dei Balcani ne apprezzeranno la realizzazione tecnica, la piacevolezza della lettura e forse persino l’accurata documentazione storica; tuttavia è il suo valore come cronaca completa di un periodo fondamentale nell’evoluzione emotiva della società occidentale che probabilmente colpirà maggiormente il pubblico odierno. Il rapporto tra rappresentazione istituzionale ed esperienza personale ha subito una riconfigurazione nella nostra epoca; l’io predomina, il concetto di dovere è distante. Ma anche noi siamo parte del flusso eterno. Personale e politico, pace e guerra, individuale e collettivo, bisogno e obbligo, io e società: tutto è in movimento, come è sempre stato. E se i lettori concluderanno che il nostro è quantomeno un mondo più emancipato di quello di Guy e Harriet, un mondo più espressivo e tollerante, forse persino più amorevole, avranno anche appreso come lo sia diventato, e il valore di quell’amore che si è disperatamente inseguito, per cui si è strenuamente lottato.

Rachel Cusk

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