Introduzione di Jonathan Franzen a «Quello che rimane» di Paula Fox

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paula fox

Senza fine:
rileggendo Quello che rimane

 

A una prima lettura, Quello che rimane è un romanzo di suspense. Sophie Bentwood, una signora quarantenne di Brooklyn, viene morsa da un gatto randagio al quale ha dato del latte, e per i successivi tre giorni si domanda che cosa le procurerà quel morso: morte per rabbia? Iniezioni nella pancia? Assolutamente niente? Il motore del libro è costituito dalla paura che fa sudare freddo Sophie. Come nei romanzi di suspense più convenzionali, la posta in gioco sono la vita e la morte e, forse, il destino del Mondo Libero. Sophie e suo marito Otto sono pionieri della buona borghesia urbana della fine degli anni Sessanta, quando la civiltà della principale città del Mondo Libero sembra stia per crollare sotto una valanga di rifiuti, vomito ed escrementi, vandalismo, frodi e odio di classe. L’amico di lunga data e socio di Otto, Charlie Russel, abbandona il loro studio legale e attacca violentemente Otto per il suo atteggiamento conservatore. Otto si lamenta che la squallida cucina di una famiglia di contadini gli dica «una cosa sola»: dice muori. E, davvero, questo sembra essere il messaggio che riceve quasi da ogni cosa nel suo mondo in cambiamento. Sophie, da parte sua, oscilla fra la paura e uno strano desiderio di essere ferita. È terrorizzata da un dolore che non è sicura di non meritare. Si aggrappa a un mondo di privilegi anche se questo la soffoca.
Lungo il tragitto, pagina dopo pagina, ci sono i piaceri della prosa di Paula Fox. Le sue frasi sono piccoli miracoli di concisione e precisione, minuscoli romanzi loro stesse. Questo è il momento del morso del gatto:

Lei sorrise, chiedendosi se mai in passato il gatto avesse sentito il tocco di un umano amico, e sorrideva ancora quando il gatto si alzò sulle zampe posteriori, perfino quando la aggredì con le mascelle spalancate, continuò a sorridere fino all’istante in cui affondò i denti nel dorso della sua mano sinistra e si appese alla sua carne tanto che lei quasi cadde in avanti, sconvolta e terrorizzata, e tuttavia abbastanza cosciente della presenza di Otto da soffocare il grido che le era salito in gola mentre si divincolava da quella trappola di filo spinato.

Immaginando un momento drammatico come una serie di gesti fisici – facendo molta attenzione – Paula Fox dà qui spazio a ogni aspetto della complessità di Sophie: la sua liberalità, la sua delusione verso se stessa, la sua vulnerabilità e, soprattutto, la sua coscienza di persona sposata. Quello che rimane è uno di quei rari romanzi che fanno giustizia di entrambi i lati del matrimonio, sia dell’odio che dell’amore, sia da parte di lei che da parte di lui. Otto è un uomo che ama sua moglie. Sophie è una donna che si scola un bicchiere di whisky alle sei del mattino di un lunedì e inonda il lavello della cucina «emettendo sonori versi infantili di disgusto». Otto è abbastanza meschino da dire: «Buona fortuna, amico!» quando Charlie lascia l’ufficio; Sophie è abbastanza meschina da domandargli, più tardi, perché l’avesse detto; Otto è mortificato quando lei lo fa; Sophie è mortificata per averlo mortificato.
La prima volta che ho letto Quello che rimane, nel 1991, me ne sono innamorato. Mi sembrava assolutamente superiore a qualsiasi romanzo dei contemporanei di Paula Fox, come John Updike, Philip Roth e Saul Bellow. Mi sembrava senza alcun dubbio grande. E siccome in quello dei Bentwood avevo riconosciuto il mio stesso, travagliato, matrimonio, e siccome il romanzo mi era sembrato suggerire che la paura del dolore è molto più distruttiva del dolore stesso, e siccome volevo tantissimo crederci, lo rilessi quasi subito. Speravo che, a una seconda lettura, il libro potesse in realtà spiegarmi come vivere.
Non è successo così. È diventato, invece, più misterioso – è diventato meno didattico e più il resoconto di un’esperienza. Cominciarono a emergere metafore e densità tematiche prima invisibili. Il mio occhio cadde, per esempio, su una frase che descriveva l’arrivo dell’alba nel soggiorno: «Gli oggetti, le loro forme che iniziavano a rafforzarsi nella luce crescente, avevano un’aria oscura, erano minacciosi come totem». Nella luce crescente della mia seconda lettura, ho visto che ogni oggetto del libro cominciava a rafforzarsi in questo stesso modo. I fegatini di pollo, per esempio, vengono introdotti nel paragrafo iniziale come una delicatezza e come il piatto centrale di una cena raffinata, come l’essenza della civiltà del vecchio mondo. («Prendi il materiale grezzo e lo trasformi», fa notare molto più avanti nel libro l’intellettuale di sinistra Leon. «Questa è la civiltà»). Un giorno più tardi, dopo che il gatto ha morso Sophie e lei e Otto hanno cominciato a reagire, i fegatini rimasti sono diventati l’esca per catturare e uccidere l’animale selvatico. La carne cotta è ancora l’essenza della civiltà; ma come appare più violenta ora la civiltà! Oppure, seguite il cibo in un’altra direzione: guardate Sophie, scombussolata, che, un sabato mattina, cerca di tirarsi su d’animo spendendo un po’ di denaro per un oggetto da cucina. Va al Bazaar Provençal per comperarsi un tegamino per omelette, un sostegno per un «nebuloso sogno domestico» di benessere e raffinatezza francese. La scena termina con la venditrice che alza le mani «come per proteggersi da una maledizione» e con Sophie in fuga con un pacchetto quasi comicamente emblematico della sua disperazione: un timer in vetro per le uova.
Per quanto la mano di Sophie sia sanguinante in questa scena, il suo impulso è di negarlo. La terza volta che ho letto Quello che rimane – l’avevo adottato per un corso di scrittura narrativa – ho cominciato a prestare maggiore attenzione a queste negazioni. Sophie continua a pronunciarle più o meno attraverso tutto il libro: Va tutto bene. Oh, non è niente. Oh, bene, non è niente. Non parlarmi di questo. IL GATTO NON ERA MALATO! È un morso, soltanto un morso! Non andrò di corsa all’ospedale per una cosa così stupida come questa. Non è niente. Va molto meglio. Queste negazioni ripetute rispecchiano la struttura che è alla base del romanzo: Sophie fugge da un potenziale rifugio a un altro, e ciascuno di questi, di volta in volta, si dimostra incapace di proteggerla. Va a una festa con Otto, esce di nascosto con Charlie, si compera un regalo, cerca conforto da una vecchia amica, contatta la moglie di Charlie, prova a telefonare al suo vecchio amante, acconsente ad andare in ospedale, cattura il gatto, va a letto, cerca di leggere un romanzo francese, fugge nella sua amata casa di campagna, medita di trasferirsi in un’altra realtà, medita di adottare un bambino, distrugge una vecchia amicizia: nulla porta sollievo. La sua ultima speranza è di scrivere a sua madre a proposito del morso del gatto «in modo tale da far risuonare la nota precisamente calcolata per scatenare lo scherno e l’ilarità della vecchia», per trasformare la sua condizione in arte, in altre parole. Ma Otto scaglia la bottiglia d’inchiostro di Sophie contro il muro.
Da cosa sta scappando Sophie? La quarta volta che ho letto Quello che rimane speravo di ottenere una risposta. Volevo comprendere, finalmente, se l’esplosione della vita dei Bentwood nell’ultima pagina del libro fosse qualcosa di felice o qualcosa di terribile. Volevo “catturare” la scena finale. Ma nemmeno allora sono riuscito a catturarla. Mi sono consolato con l’idea che la buona narrativa è definita, in larga parte, dal suo rifiuto di offrire le facili risposte dell’ideologia, le cure di una cultura terapeutica, o i sogni tranquillizzanti dell’intrattenimento di massa. Forse Quello che rimane non aveva tanto a che fare con le risposte quanto con la persistenza delle domande. Ero colpito dalla rassomiglianza di Sophie con Amleto, un altro personaggio morbosamente autocosciente che riceve un messaggio destabilizzante e ambiguo, che patisce tormenti mentre cerca di capire che cosa significhi il messaggio, e alla fine si mette nelle mani di una divinità “provvidenziale” e accetta il suo destino. Per Sophie Bentwood, il messaggio ambiguo non arriva da un fantasma ma dal morso di un gatto, e la sua agonia non ha tanto a che fare con l’incertezza quanto con una riluttanza nell’affrontare la verità. Verso la fine, quando lei si rivolge a una divinità e dice: «Dio, se ho la rabbia, sono uguale a tutto quello che c’è fuori», non è un momento di rivelazione. È un momento di sollievo.

Un libro finito, anche se per poco tempo, fuori catalogo può suscitare un’amorosa apprensione nel più devoto dei lettori. Allo stesso modo in cui a un uomo può rincrescere che un certo timido manierismo offuschi la bellezza di sua moglie, o una donna può desiderare che il marito rida meno rumorosamente per le barzellette che lui stesso racconta, nonostante siano molto divertenti, io ho sofferto per le minuscole imperfezioni che potrebbero creare qualche pregiudizio nel potenziale lettore di Quello che rimane. Sto pensando alla rigidezza e all’impersonalità del paragrafo d’apertura, all’austerità della prima frase, alla stridente parola «pietanze». Come amante del libro, invece, adesso apprezzo il modo in cui la formalità e la stasi di questo paragrafo mettono in moto il breve, pungente scambio di battute che segue («Il gatto è tornato»), ma che cosa succede se un lettore non riesce ad andare al di là di «pietanze»? Mi domando anche se il nome “Otto Bentwood” possa essere troppo difficile a una prima lettura. Paula Fox di solito lavora molto accuratamente sui nomi dei personaggi: il nome “Russel”, per esempio, ben rimanda alle energie inquiete, sfuggenti di Charlie (Otto sospetta che lui «si dia da fare» con i clienti), e proprio come al personaggio di Charlie sicuramente manca qualche cosa, al suo cognome manca una seconda “l”. Ammiro molto il modo in cui il nome fuori moda e vagamente teutonico “Otto” si addica perfettamente a Otto, così come gli si addice il suo compulsivo senso dell’ordine: ma “Bentwood”, anche dopo molte letture, rimane per me un po’ artificiale nella sua immagine da bonsai. E poi c’è il titolo del libro. È adatto, certamente, eppure non è Il giorno della locusta, né Il grande Gatsby, né Assalonne, Assalonne! È un titolo che la gente può dimenticare o confondere con altri titoli. A volte, desiderandolo più incisivo, provo un senso di solitudine simile al particolare senso di solitudine di chi è profondamente sposato.
Col passare degli anni, ho continuato a immergermi e a uscire da Quello che rimane, cercando conforto o rassicurazione nei passaggi di bellezza familiare. Ora che ho riletto il libro nella sua interezza, però, sono meravigliato di quanto, in esso, rimanga per me ancora vergine e sconosciuto. Non avevo mai fatto attenzione, per esempio, all’aneddoto di Otto, verso la fine del libro, su Cynthia Kornfeld e suo marito, l’artista anarchico. Non avevo mai notato come la macedonia di gelatina e monetine di Cynthia Kornfeld faccia il verso all’equazione dei Bentwood fra cibo, privilegio e civiltà, o come l’idea delle macchine da scrivere modificate per vomitare frasi senza senso prefiguri l’immagine finale del romanzo, o come l’aneddoto insista sul fatto che Quello che rimane debba essere letto nel contesto di una scena artistica contemporanea la cui finalità è la distruzione dell’ordine e del significato. E Charlie Russel? L’avevo mai veramente visto fino ad ora? Nelle mie letture precedenti rimaneva una sorta di normale furfante, un voltagabbana, un uomo grossolano. Ora mi sembra che sia tanto importante nell’economia della storia quanto il gatto. È l’unico amico di Otto; la sua telefonata fa esplodere la crisi finale; lui introduce la citazione di Thoreau che fornisce il titolo al libro; e lui formula un verdetto sui Bentwood – «tristemente schiavizzata dall’introspezione mentre le fondamenta dei suoi privilegi vengono fatte esplodere sotto i suoi piedi» – che sembra sinistramente preciso.
Ad ogni modo, ora non sono nemmeno sicuro di desiderare nuove intuizioni. Come Sophie e Otto soffrono a causa di una troppo intima conoscenza reciproca, io adesso soffro di una conoscenza troppo intima di Quello che rimane. Le mie sottolineature e note a margine si stanno scolorendo. Nella mia ultima lettura, ho scoperto e mostrato come vitale e centrale un’enorme quantità di immagini, che precedentemente avevo ignorato, che hanno a che fare con l’ordine e il caos e l’infanzia e l’età adulta. Dato che il libro non è lungo, e dato che ormai l’ho letto una mezza dozzina di volte, sono vicino al punto in cui ogni frase si illumina come vitale e centrale. Questa straordinaria ricchezza è, naturalmente, un testamento del genio di Paula Fox. È difficile trovare una parola non essenziale o arbitraria nel libro. Un rigore e una densità tematica di tale grandezza non avvengono per caso, eppure è quasi impossibile per uno scrittore raggiungerli mentre si rilassa a sufficienza per permettere ai personaggi di diventare vivi, eppure questo romanzo ci riesce e si libra più in alto di ogni altra opera narrativa americana di stampo realistico dalla seconda guerra mondiale in poi.
L’ironia della ricchezza del romanzo, comunque, è che più afferro l’importanza di ogni singola frase, meno sono capace di esprimere chiaramente a quale grandioso, globale significato servano tutti questi significati particolari. C’è, alla fine, una specie di orrore per un sovraccarico di significati. È molto simile, come suggerisce Melville in Moby Dick, nel capitolo “La bianchezza della balena”, a un totale azzeramento di significato. Inseguire e decifrare e organizzare il significato della vita può sommergere il fatto stesso di poterla vivere, e in Quello che rimane il lettore non è l’unico ad essere sommerso. I Bentwood stessi sono fini letterati, creature totalmente moderne. La loro maledizione è di avere un’eccessiva capacità di lettura di se stessi in quanto testi letterari densi di significati sovrapposti. Nel corso di un weekend di fine inverno, vengono angustiati e alla fine sopraffatti dal modo in cui le parole più casuali e i più piccoli incidenti sono avvertiti come “presagi”. L’enorme suspense che il libro sviluppa, allora, non è soltanto un prodotto della paura di Sophie, o del fatto che la Fox chiuda passo dopo passo ogni possibile via di fuga, o della sua equazione di una crisi di un rapporto matrimoniale con una crisi in un rapporto di lavoro e una crisi nella vita urbana americana. È soprattutto il lento addensarsi di una pesante, schiacciante ondata di significato letterario. Sophie invoca coscientemente ed esplicitamente la rabbia come una metafora della sua condizione emotiva e politica, e nonostante Otto crolli e si lamenti da quanto si sente disperato, non può non citare (in senso postmoderno) la precedente conversazione fra lui e Sophie su Thoreau, invocando in tal modo tutti gli altri temi e dialoghi che scorrono durante il fine settimana, in particolare il tormento di Charlie riguardo al tema della “disperazione”. Per quanto sia orribile essere disperati, è ancora peggio essere disperati e, allo stesso tempo, consapevoli delle questioni vitali della legge e dell’ordine e del privilegio e dell’interpretazione thoreauiana che sono implicati nella disperazione privata di ognuno di noi, e sentire che, nel momento in cui si crolla, si sta dimostrando a un’intera nazione che Charlie Russel ha ragione. Quando Sophie dichiara di desiderare di avere la rabbia, quando Otto scaraventa la bottiglia d’inchiostro, entrambi sembrano ribellarsi contro l’insostenibile, quasi omicida senso di importanza delle loro parole e dei loro pensieri. C’è poco da stupirsi che le ultime azioni del libro siano senza parole – che Sophie e Otto abbiano «smesso di ascoltare» le parole che colano dal telefono, e che la cosa scritta con l’inchiostro, che lentamente si voltano a leggere, sia una macchia violenta e muta. Non appena Paula Fox riesce, con radioso successo, nell’impresa di trovare un ordine nei non eventi di un fine settimana di tardo inverno, con gesto perfetto ripudia quell’ordine.
Quello che rimane è un romanzo in rivolta contro la sua stessa perfezione. I problemi che solleva sono radicali e spiacevoli. Che senso ha dare un significato – specialmente un significato letterario – in un mondo moderno e rabbioso? Perché affannarsi a creare e preservare un ordine se la civiltà è minuziosamente omicida quanto l’anarchia alla quale si oppone? Perché non prendersi la rabbia? Perché tormentare noi stessi con i libri? Rileggendo il libro per la sesta o settima volta, sento montare in me rabbia e frustrazione a causa dei suoi misteri e dei paradossi della civiltà e dell’inadeguatezza del mio stesso cervello, e poi, come se venisse dal nulla, finalmente riesco a catturare il finale: provo quello che Otto Bentwood prova quando fracassa la bottiglia d’inchiostro contro il muro. E all’improvviso sono di nuovo innamorato.

JONATHAN FRANZEN

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