In occasione dell’uscita di Più donne che uomini di Ivy Compton-Burnett, Alessia Ragno ci racconta le sue impressioni sul romanzo.
Non è così raro che durante la lettura di Più donne che uomini di Ivy Compton-Burnett ci si ritrovi a tornare più volte sulle stesse frasi, come a voler imprimere nella mente le singole parole e assicurarsi che sia proprio quello lo stile, la costruzione, il messaggio. Ogni frase del romanzo, per quanto stilisticamente asciutto, nasconde infatti strati di informazioni che bisogna levigare con pazienza per giungere alla verità; quale sia, però, questa verità, non è dato saperlo con certezza. Probabilmente nemmeno a fine romanzo si arriva a comprendere, nella sua interezza, tutte le sfaccettature dei protagonisti, il loro messaggio al mondo e ciò che di esso rappresentano, ma questo non è però un limite dell’autrice, semmai è la sua grandezza.
A lungo dimenticata, coetanea di Virginia Woolf e da lei schiacciata nell’eterno ricordo letterario, Ivy Compton-Burnett era un genio letterario. Di lei Rebecca West diceva “She was very, very clever” (fonte: Paris review), era intelligente, arguta, e decisamente poco convenzionale come donna e come autrice. La sua scrittura è essenziale, la punteggiatura frettolosa, l’incedere dei dialoghi che costruisce non si dimentica. Di sé diceva:
[…] i miei libri mi sembrano essere qualcosa a metà strada tra un romanzo e un’opera teatrale. (Fonte: BBC Home program, 17 Settembre 1960)
In Più donne che uomini delinea con cura estrema l’aspetto dei protagonisti e lo fa per una sola volta, nella presentazione, per lei è più che sufficiente. (Fonte: BBC Home program, 17 Settembre 1960). Tutto quello che c’è intorno viene ignorato: non serve descrivere un luogo, né indugiare su espressioni del viso, gesti o manifestazioni emotive, tutto si svolge col ritmo altissimo di questi botta e risposta teatrali, quello che serve sapere al lettore emerge nelle massime che l’autrice consegna ai suoi personaggi. E anche i protagonisti della scena, un termine non casuale data lo spessore quasi teatrale del romanzo, sono asciutti, diretti e profondamente ambigui. Josephine Napier è la protagonista assoluta, il centro nevralgico del romanzo; lei è la direttrice della scuola in cui è tutto ambientato, in un’epoca edoardiana appena accennata, e al suo fianco ha il marito Simon, il figlio acquisito Gabriel, il fratello Jonathan, il pupillo di lui Felix Bacon e una corte di insegnanti. Delle giovani studentesse nemmeno l’ombra, sono un mormorio di fondo nelle vicende personali di Mrs Napier. Josephine è alta e austera, profonda conoscitrice delle buone maniere che si confanno ad una donna come lei, dalla prima impressione quasi sorprendentemente progressista, soprattutto quando sciorina il suo pensiero sulla posizione nella società delle donne, il loro diritto allo studio e al lavoro. In fondo lei ha messo su la sua scuola da sola, è una self made woman che non deve niente a nessuno, salvo poi difendere la sua scelta di pagare stipendi più bassi alle donne lavoratrici.
Gli uomini hanno più responsabilità delle donne. Non credo che si possano applicare gli stessi criteri.
Una posizione dettata dal contesto storico, più che da una reale convinzione personale, e questa tesi viene dimostrata dal piglio decisamente autoritario con cui da direttrice, zia, madre adottiva e amica gestisce i suoi rapporti personali e le sventure che le capitano. Lutti, matrimonio, sconvolgimenti la sorprendono solo in parte perché l’indole è sempre e solo quella di domare le novità in nome di un destino che solo lei sa interpretare, solo lei ne è l’artefice. Non si sa se ammirarla moltissimo o detestarla con altrettanto trasporto, ma l’indecisione dura fino ad un chiarissimo punto di svolta della trama, quando il suo lato oscuro prende il sopravvento e non ci sarà rimorso che tenga: ha delle responsabilità nel corso degli eventi, le nasconde, ne è consapevole e nessuno saprà più tenerle testa da allora in poi. Questo romanzo è il chiaro crescendo del suo potere morale.
Se la natura ambigua della sua protagonista è un tema ricorrente nella produzione dell’autrice, l’ambientazione è una singolarità: Compton-Burnett mette in pausa la presenza ricorrente della casa come luogo eletto per traslare i temi portanti della sua poetica in una scuola. Rimane, però, la costante sensazione claustrofobica quando si parla di ambienti, infatti quasi tutte le vicende del romanzo e gli scambi di dialoghi si svolgono in un edificio solo. Anche se in senso lato, torna il tema della famiglia: quella disfunzionale di Josephine Napier e quella allargata che comprende studentesse e insegnanti della scuola. Anche alcune relazioni diventano claustrofobiche: quella di Mrs Napier col figlio/nipote Gabriel, quella del fratello scrittore Jonathan Swift col suo pupillo Felix Bacon, mentre sorprendentemente il marito Simon è una meteora veloce, trasparente e inconsistente, anche per la stessa Josephine. La definizione eccellente di Josephine Napier nella quarta di copertina, “generale ingioiellato”, è la metafora perfetta dello spirito che la anima: una donna ambigua sotto la spessa patina perbenista dell’epoca.
«Josephine non usa mezze misure», disse Gabriel. «È una potenza, nel bene e nel male».
I dialoghi fitti, pieni zeppi di parole e convenevoli, una narrazione complessa a condire i temi prediletti di Ivy Compton-Burnett: la debolezza umana e le manie dell’individuo, i profili psicologici complessi e difficilmente afferrabili se non a romanzo concluso, come quello di Josephine, perla incontrastata di Più donne che uomini. Lei è la donna stratega del suo destino e di quello altrui, che inchioda le persone a sé in un turbine di botta e risposta e parole come fendenti. Leggete Ivy Compton-Burnett parola per parola, ritornate sulle stesse frasi ancora e ancora, chissà cosa altro si troverà sotto la superficie della sua punteggiatura.
Alessia Ragno