La genesi de «Il campo di Gosto»

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Gosto

I borghi hanno sempre attirato la mia attenzione: nel chiuso delle loro mura, gli abitanti si osservano e si spiano, desiderosi di sorprendere nel vicino qualcosa di diverso, e quindi qualcosa di sospetto.

In un borgo la diversità dà fastidio più che altrove e salta agli occhi.

Gosto è considerato un diverso, perché non è originario del borgo in cui vive, dove non ha messo radici. Lui non è come gli altri, non obbedisce alle stesse regole, è un solitario, come spesso i protagonisti dei miei romanzi: la diversità favorisce l’indipendenza di giudizio da cui viene la forza di essere se stessi, di non sottostare alle regole del conformismo imperante.

Mi ha invogliato a scrivere di Gosto anche il clima di questi ultimi anni, in cui si è andata accrescendo l’insofferenza verso chi è percepito come differente, estraneo, straniero, e quindi come qualcuno da isolare e da ritenere pericoloso.

Ci troviamo a vivere in un clima in cui, nonostante tutto, non si apprezza abbastanza il valore della diversità, anche semplicemente quella caratteriale di un individuo che si rifiuta di scendere a patti e di adattarsi all’ipocrisia di certe abitudini sociali comunemente accettate e consolidate, come nel caso di Gosto.

Mentre scrivevo Il campo di Gosto mi sentivo vicino quegli autori toscani che mi hanno sempre accompagnato: di Federigo Tozzi riecheggiava in me la lingua tagliente e aspra dei personaggi, di Carlo Cassola m’arrivava la visione incantata della natura e la capacità di soffermarsi sui piccoli fatti di tutti i giorni, di Aldo Palazzeschi i discorsi meschini e cinici delle donne in età da lui dipinte. Di Antonio Tabucchi percepivo lo sguardo attento a quel gesto di coraggio che può dare senso a un’esistenza.

Abbandonato dalla moglie, con una figlia unica che pensa solo ai soldi e a quanto lui potrà lasciarle, Gosto, pur dovendo affrontare la solitudine della sua vita da pensionato, preferisce starsene per conto suo.

Non è uno che si crogiola nell’amarezza. Vitale e costruttivo, ha sempre cercato di valorizzare quanto si è trovato a possedere: il podere in rovina che gli ha lasciato in eredità il padrino di battesimo e il suo campo, che è riuscito ad acquistare con i suoi risparmi e che per questo sente ancor più suo, come se lo avesse guadagnato zolla per zolla.

Al contrario della moglie che, al tempo della loro convivenza, diffidava di tutti, lui, per vivere, ha bisogno di credere negli altri. Anche per questo tende a starsene da solo, per non esporsi alle delusioni e mantenere accesa dentro di sé la fiducia nel prossimo.

Gosto sta bene con se stesso; non ha rimpianti, gli piace abbandonarsi ai ricordi, pensare al suo progetto – l’ultimo che gli è rimasto – di fare un uliveto in quel suo campo dove respira un’aria di libertà e dove si sente al sicuro ancor più che nel suo podere, quasi quel pezzo di terra fosse per lui un bozzolo che lo difende dai mali del mondo.

Per lui, infatti, quel che veramente conta è immergersi nella natura, ascoltarne il silenzio, perdersi nella sua infinita bellezza, tenendo lontani dallo sguardo indagatore degli altri i propri pensieri e la propria vita.

Per questo Gosto evita di sottostare ai rituali dei pensionati del borgo: non gioca a carte, non si ferma a bere con loro un bicchierino al bar, non ascolta i loro commenti a scapito dell’uno o dell’altro e soprattutto a detrimento di uno come lui, uno fuori dal branco che non dà mostra di piegarsi davanti all’arroganza di quelli che contano.

Questo suo atteggiamento schivo lo rende sempre più isolato e accresce il numero dei suoi nemici.

Quando Gosto si accorge che non si accaniscono solo contro di lui, ma che uno di loro non ha esitato a colpire una giovane che gli aveva mostrato amicizia, si rende conto che non può continuare a vivere come prima, scansando tutti e ignorando il male per poter credere nel bene.

Cercherà di ottenere giustizia, sostenuto dalla consapevolezza che, reagendo alla violenza e alla paura, potrà finalmente dare un senso alla sua esistenza e aprire il cammino a chi vorrà seguirlo.

 

Anna Luisa Pignatelli

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