Aspettando l’uscita, il 23 gennaio, di Ai sopravvissuti spareremo ancora, Claudio Lagomarsini ci racconta la nascita del suo romanzo.
Ho l’impressione che la provincia in cui sono cresciuto, quella sul confine tra Toscana e Liguria, non sia stata ancora raccontata come meriterebbe. L’anfiteatro delle Alpi Apuane ha per palco il mare della Versilia, e gli attori portano con sé le contraddizioni di un mondo anfibio, tra mare e montagna: temperamento solare e affascinante da bagnino o marinaio, ma anche modi ombrosi, schivi e duri, da montanari o da cacciatori.
Prima di tutto, prima di ogni idea concreta, per me è venuto il bisogno di raccontare qualcosa che correva il rischio di non essere raccontato mai. Più ancora dei personaggi doveva andare in scena questo universo contraddittorio e affascinante.
Qualche anno fa, quando abitavo con mia madre in provincia, un vicino di casa inchiodò una targa di metallo al suo muro. Sotto il disegno stilizzato di un revolver si vedeva una scritta che invitava i passanti a non superare il limite se non volevano rimediare una pallottola nella pancia. Quel vicino era la persona più pacifica della terra, un anziano simpatico e generoso. Ma in lui, cioè nel suo bisogno di mostrarsi forte e pericoloso, prendeva vita proprio la contraddizione di cui sto parlando. Da quella targa di metallo, con tutto ciò che si porta dietro, è scaturita la scintilla che ha messo in moto la scrittura.
Al centro del romanzo si trova un vicinato di provincia, apparentemente sonnacchioso e tranquillo, che viene scosso da una rapina. In parallelo con le indagini si delineano i rapporti tra i vicini. Che sono rapporti problematici, fatti di condivisione e collaborazione ma anche di continui attriti, sconfinamenti, incomprensioni.
La vicenda si svolge nell’estate del 2002 ed è raccontata da un ragazzo di diciassette anni, Marcello, che vive una condizione problematica ma tutto sommato comune: ama una compagna di classe senza esserne corrisposto e nutre sentimenti contrastanti nei confronti dei familiari, che da parte loro sembrano non capirne le stranezze (perché Marcello passa l’estate a leggere e studiare anziché andarsene al mare come tutti?).
La crisi di questo ragazzo, simile a quella di molti adolescenti, è però potenziata dal fatto di trovarsi a crescere in un mondo retrogrado, violento e sessista, rappresentato in particolare dal compagno della madre – soprannominato Wayne in omaggio ai western su cui si è formato quasi religiosamente – e dall’anziano vicino di casa, “il Tordo”, vittima della rapina.
Anche se nel romanzo rivestono ruoli secondari, le donne che abitano questa provincia non sono migliori degli uomini: quando non si accontentano per convenienza o per ignoranza del proprio ruolo subalterno, diventano manipolatrici ciniche. E se si stancano di essere vittime si trasformano in aguzzini, scoprendosi capaci di un’aggressività che non ha niente da invidiare a quella degli uomini. È il caso, ad esempio, della nonna di Marcello, che come i personaggi maschili presenta una natura duplice e contraddittoria. E forse è affascinante proprio per questo.
Nello spaccato provinciale da cui sono partito trova anche spazio – ed è un’esigenza che si è precisata mentre prendeva corpo il romanzo – una questione di respiro più generale: il mondo arretrato e gretto di Wayne e del Tordo è ormai al suo tramonto, sì, com’è evidente dalle loro battute grevi ma stanche e dal bisogno di raccontare sempre gli stessi quattro episodi di gioventù, come se dopo i vent’anni fosse arrivata l’apocalisse. Eppure, a questi uomini non esiste una valida alternativa. Dov’è il padre di Marcello, ad esempio? Che cosa è andato a cercare in Brasile?
La condizione di Marcello assomiglia a quella che hanno vissuto o vivono molte persone della mia generazione, i Millennial: sappiamo che cosa non è più giusto dire fare pensare, ci rendiamo conto che qualcosa è stato superato (finalmente!), e tuttavia siamo incapaci di elaborare un modello nuovo, chiaro e condiviso. Navighiamo a vista.
Con l’arroganza delle loro certezze inscalfibili – la donna deve stare al suo posto, in casa; l’omosessualità è uno sbaglio di natura; le controversie si risolvono con la legge del più forte, anche perché lo Stato è assente –, il Tordo e Wayne sono il trionfo di un certo tipo umano, ancora molto diffuso (mi sembra) nella generazione dei miei nonni e dei miei genitori, almeno nell’orbita del contesto sociale in cui sono cresciuto. Marcello e “il Salice” (suo fratello, apparentemente sereno eppure preso dalle improvvise crisi di pianto che gli valgono il soprannome) hanno invece tutte le insicurezze degli adolescenti, a cui si aggiungono le incertezze di chi ha il compito di creare qualcosa di nuovo senza sapere da dove iniziare e senza poter contare su validi punti di riferimento.
Quanto c’è di autobiografico nel romanzo? Me lo hanno chiesto diverse persone, e per scherzare sarei tentato di rispondere con una cifra: il 67,4%. Sarebbe divertente se nella scrittura si potesse fare un calcolo esatto, separando le parole che uno ha effettivamente ascoltato e riportato da quelle che ha inventato di sana pianta, da quelle che – ancora – ha ascoltato e dimenticato per poi convincersi di averle inventate.
Prendiamo uno dei personaggi, il Tordo: assomiglia a quel vicino di casa che, anni fa, ha affisso la targa metallica sul muro della casa di fronte alla mia. Gli assomiglia abbastanza ma non del tutto: diciamo un 67,4%. Perché il mio vicino ha effettivamente detto, pensato o fatto solo alcune delle cose che nel romanzo vengono attribuite al Tordo. Delle altre non sarebbe capace, mentre lo sarebbero, probabilmente, altre persone che ho conosciuto o che ho solo immaginato. Oppure potrei esserne capace io.
Già, nemmeno io posso dirmi estraneo alla contraddizione che maledice gli Apuani. Mi descrivo (o mi descrivono) come timido. Ma qualche volta sarò sembrato sfacciato, inopportuno. Ora simpatico e alla mano, ora arrogante e altezzoso. Un giorno bagnino, l’altro montanaro.
Mentre scrivevo e si andava precisando un tasso autobiografico tutt’altro che banale (67,4% vuol dire quasi sette parole ogni dieci), ho sentito un’ultima esigenza, quella di aggiungere una seconda voce – un’altra prospettiva – a quella di Marcello.
C’è un romanzo di Alessandro Piperno che ho amato molto: è diviso in due volumi riuniti sotto un titolo comune, Il fuoco amico dei ricordi. Ed è così, anche a molti anni di distanza i ricordi possono ripresentarsi per spararci contro, anche se non dovrebbero e noi non lo vorremmo. Tra le vittime di questo fuoco amico c’è anche il Salice. A lui – che all’inizio del romanzo, molti anni dopo l’estate del 2002, ritrova i vecchi quaderni di Marcello – ho assegnato la responsabilità di fornirci una versione adulta, più posata e meditata, dei fatti riferiti dal fratello, che è un adolescente brillante, ma come molti adolescenti è incapace di mediazione, a tratti è radicale ed estremista.
Quando interviene, il Salice ci suggerisce che le cose sono andate come sono andate, è vero, ma si possono o si devono interpretare in modo diverso da come Marcello le presenta. Nessuna condanna può dirsi davvero giusta se è senza appello; nessuna resa dei conti con il passato ha senso di esistere se non contiene un briciolo di pietà.
Claudio Lagomarsini