La genesi di «Jacu» di Paolo Pintacuda

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Pintacuda

Ho trascorso la mia infanzia al Cinema Nazionale, una delle sei sale cinematografiche che fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ‘80 esistevano a Bagheria. Rappresentava per me un’appendice di casa perché in quella sala, mio padre – Mimmo Pintacuda – lavorava come proiezionista.

Il rapporto con mio padre era simbiotico dato che oltre a stargli idealmente accanto sul posto di lavoro, gli stavo veramente attaccato quando si trattava di seguirlo per le vie di Bagheria equipaggiato della sua macchina fotografica. Era infatti anche un fotografo di fama che aveva esposto in gallerie importanti, vantava amici come Renato Guttuso, e a metà degli anni ’60, nella cabina del Cinema Capitol lasciata poi per il Nazionale, aveva accolto la richiesta di un bambino di nove anni che voleva fare il proiezionista e nutriva un’innata passione per la fotografia. Quel bambino, figlio di un amico di vecchia data, era Giuseppe Tornatore che a mio padre, anni dopo, si sarebbe ispirato per il personaggio di Alfredo di Nuovo Cinema Paradiso.

Il mio romanzo, che ha richiesto un lungo periodo di ricerca, è legato in qualche modo a quel tempo della mia infanzia. È il lavoro che più di altri esprime il mio rapporto con la scrittura e la mia passione per la scrittura. Nata proprio grazie a mio padre.

Ecco, lui da proiezionista narrava al cinema storie di fantasia pensate da altri, da fotografo narrava storie vere sfiorate per caso e da padre raccontava a suo figlio le proprie vissute in tanti anni.

Grazie a lui ho capito quindi molto presto l’effetto ammaliante e formante che il racconto può avere su un bambino.

Il primo seme di Jacu nasce da una memoria di mio padre che mi raccontava del suo di padre, nato settimino alla fine dell’Ottocento, cresciuto con mille ambizioni prematuramente fallite e costretto, ad appena diciassette anni – e da antimilitarista – a combattere una guerra che non voleva combattere.

Quei racconti giungevano a me postumi – dato che venni al mondo quando mio nonno non era più tra i vivi –, ma allo stesso tempo fedelmente narrati da mio padre. Ricordo quindi gli episodi che mio nonno aveva vissuto in trincea e le fortuite circostanze che gli avevano salvato la vita, i rocamboleschi tentativi di organizzare spettacoli teatrali nelle retrovie, la malinconia per quella distanza dalla propria famiglia e dalla propria terra che al tempo appariva abissale, e il timore di trovarsi costretto, prima o poi, a dover uccidere qualcuno.

Ecco, fantasticando proprio su quel conflitto personale che mio nonno certamente aveva vissuto, mi sono chiesto cosa sarebbe accaduto a un giovane vissuto in quegli anni senza speranza, se si fosse trovato di fronte al terrore di uccidere, ma possedendo il potere di guarire.

Il mio romanzo, che copre un arco di oltre quarant’anni, racconta di una società e un tempo ineluttabilmente votati all’irragionevolezza e in cui la cosa più inverosimile – il dono posseduto da un bambino – sembra l’elemento più razionale.

Potrebbe essere un romanzo storico, e per certi versi lo è, ma è anche un romanzo dove protagonista non è la guerra coi suoi incomprensibili e drammatici riti, ma l’indole umana in molte delle sue sfumature. Non a caso nella piccola e appartata comunità dove la vicenda ha inizio – quell’immaginaria Scurovalle popolata da una manciata di anime – emergono superstizione, invidia, rancore, ma anche generosità e speranza.

Per dare alla vicenda un valore mistico, sempre in bilico tra leggenda, parabola e crudo realismo, ho affidato la narrazione a un personaggio che ricostruisce le vicende di Jacu – vere o verosimili – come un immenso puzzle e tramanda la memoria di questo eroe dal cuore puro restituendogli ciò che in vita gli è stato tolto: la riconoscenza.

Se vogliamo era un po’ quello che facevo da bambino quando dopo aver ascoltato i racconti di mio padre, provavo a immaginare cos’era accaduto a mio nonno fra un episodio e l’altro di quei pochi che in fondo aveva raccontato una volta tornato dal fronte.

Nelle vicende di mio nonno, come poi in quelle di Jacu, ho sempre pensato incombesse un senso di fatale e grottesca inevitabilità, ma anche e soprattutto un inesauribile senso di speranza.

 

Paolo Pintacuda

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