La genesi di «Sarò breve» di Francesco Muzzopappa

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Sarò breve

Ho scritto un testamento.

Non il mio, visto che grazie al cielo sono ancora in salute, ma di Ennio Rovere, un uomo del quale ho immaginato l’intera vita per poi raccontarla attraverso i lasciti, le beghe famigliari e un’inconsueta e prolissa divisione dei beni.

“Ma perché proprio un testamento?”, vi chiederete, forse.

Be’, amiche. Perché vi vedo: secondo me siete soprattutto amiche.

Perché un testamento è la resa dei conti, è forse l’atto più liberatorio dell’intera vita, forse il momento in cui possiamo permetterci di essere noi stessi al 100% senza temere vendette, ritorsioni e ripicche. E soprattutto, le ultime volontà non prevedono un contraddittorio.

Quando si immagina e poi si scrive un testamento non si ha più nulla da perdere, e la possibilità di regolare i conti è totale, definitiva e irreversibile. Ed è per questo che ho immaginato di scriverne uno in cui il protagonista, Ennio Rovere, ricco mobiliere venuto dal nulla e dalla povertà più nera, decide di raccontare la sua vita e nel frattempo dividere ciò che ha faticosamente accumulato con mogli, figli, nipoti, collaboratori e insospettabili protagonisti della sua vita che emergono, a sorpresa, nell’intreccio della storia.

Nel mio romanzo Sarò breve, l’intreccio della storia coincide con l’intreccio famigliare.

Ma doveva essere una commedia, il testo doveva far ridere, pur presentando dei momenti, inevitabilmente, emotivamente intensi. Il mio sforzo è stato quello di far convivere risate a scena aperta con passaggi più commoventi.

Il sarcasmo, il tono caustico, la mancanza di argini e la mole esagerata di ricordi aggrappati saldamente alla mente di Ennio, contribuiscono a creare un testo che è una via di mezzo tra una saga famigliare e una lunga lettera d’addio, con quelle stilettate di humour nero che adoro in Mel Brooks, quei colpi in punta di fioretto che sottolineo in Patrick Dennis, quelle falciate a colpi di machete che amo in Fran Lebowitz.

Se vi state chiedendo cosa possa esserci di tanto sorprendente in un testamento, ho un po’ di esempi da farvi. La storia della letteratura è zeppa, ad esempio, di scrittrici e scrittori che hanno deciso di lasciare ai loro posteri un testamento ricco di parole e colpi di scena.

Si intendeva di drammaturgia e frasi a effetto William Shakespeare, che alla sua morte decise di regalare un ultimo coupe de théâtre alla consorte Anne Hathaway: dopo più di trenta anni di matrimonio, infatti, le lasciò il suo secondo miglior letto e pochi mobili.

Alle figlie predilette, invece, quasi mezzo milione di euro a testa.

Charles Dickens chiese in maniera inequivocabile che alla sua morte non gli fosse dedicato nessun monumento o memoriale. Al momento si contano diverse migliaia, tra statue, vie e piazze, dedicate allo scrittore inglese.

Per quel che riguarda il memoriale, il Charles Dickens World (un nome discreto e poco altisonante) è stato chiuso nel 2016.

Nel testamento dispose che non ci fossero funerali pubblici. Per lui ci furono esequie di Stato e l’intero Paese si fermò per commemorarlo.

Che le volontà dei deceduti non sempre vengano rispettate è una consuetudine che ha permesso alla storia della letteratura mondiale di accedere a capolavori che diversamente sarebbero stati distrutti o gettati nella differenziata.

L’Eneide di Virgilio per esempio, stando alle volontà del poeta, era destinata alle fiamme.

Le opere di Kafka dovevano essere distrutte.

George Bernard Shaw, uomo di ingegno, scrittore, drammaturgo, critico musicale nonché premio Nobel per la letteratura, dispose che parte del suo patrimonio andasse a finanziare l’invenzione di un nuovo alfabeto, con tutte le disgrazie che il mondo quotidianamente deve affrontare.

Come i miei libri, ad esempio.

Che forse non sono degli specchi veri e propri in cui rivedersi, ma lenti deformanti che attraverso l’ironia riescono a rendere le frustrazioni, le ingiustizie, la tristezza e la mancanza di prospettive più sopportabili del normale.

 

Francesco Muzzopappa

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