Aspettando l’uscita de Il grande me, Anna Giurickovic Dato ci racconta la genesi del suo nuovo romanzo.
Non esiste domanda più insidiosa, per uno scrittore, che quella del perché abbia scritto proprio quel libro. Perché questo e non un altro?, prova a interrogarsi, tra sé e sé, il povero scrittore, Perché questo libro e non, invece, nulla? L’impossibilità di trovare una risposta si accorda, perfettamente, al drammatico senso di colpa di chi, ostinato, scrive nonostante nessuno gli abbia chiesto di farlo, per di più con l’ambizione (l’insolenza) di essere pubblicato e, non di rado, persino di essere letto. Narcisista, impostore, saltimbanco, scansafatiche, parassita e malfattore, questo sono, pensa di sé il povero scrittore, quando è sano di mente.
È davvero così importante conoscere il “perché” retrostante il romanzo? È proprio il suo autore la persona giusta per individuarlo? È più importante scoprire il punto da dove il libro parte o quello in cui arriva?
Caro lettore, non so perché ho scritto questo romanzo, né se avrei dovuto farlo; non ne conosco la genesi se non in parte e riguardo a quel che so e ricordo conservo qualche reticenza.
Fuori c’era Milano, ma io ero sempre dentro; ho assistito a due inverni e due estati, il tempo mi è parso dapprima interminabile, infine irrimediabilmente compresso. Ho incontrato un padre, poi molti altri: uno l’ho conosciuto, l’altro l’ho riconosciuto, il terzo l’ho interiorizzato, il quarto l’ho dimenticato, il quinto l’ho riverito, il sesto lo avevo soltanto immaginato, il settimo l’ho acclamato, l’ottavo l’ho rimproverato, dal nono mi sono congedata, del decimo aspetterò il ritorno.
Ecco cosa contiene Il grande me: un’attesa e un commiato, un tentativo d’inversione, un restauro, un delirio, un’invenzione e un atto di fede. La sua genesi è il padre, o meglio, la domanda di padre, o meglio ancora, l’interrogativo rivolto a ciò che del padre resta.
Vi è un momento glorioso, collocato nel passato (il mio), in cui tra il padre e il Dio non v’è alcuna differenza, né v’è distinzione tra rapporto di filiazione e credo; qui il padre è legge, la sua parola è sempre l’ultima, lui è il solo che della vita conosce il senso. Il padre è autorità e potenza, il figlio un trasgressore.
Vi è un momento nostalgico, collocato nel presente (il mio), in cui il padre tramonta, la legge scompare e il figlio rivolge all’orizzonte una continua e disperata invocazione; qui il padre non è più un dio, ma un testimone.
Questo processo è l’evento da cui prende vita il mio romanzo: Il grande me ne racconta l’inizio e la fine, ne esibisce l’angoscia, non assolve, non risolve, ma rielabora, reinventa e forse, in minima parte, si libera.
Il grande me viene scritto, inizialmente, a Milano, sotto forma di lettere a me stessa. Riscritto ad Heidelberg, in Germania, nella stanza di una casa da cui sono scappata per un’invasione di cimici. Riscritto un’altra volta, da capo, a Granada, in Spagna, il luogo dove sono stata meglio accolta e nel quale, tuttavia, mi sono sentita più sola. Riscritto, per la quarta volta, a Parigi, città in cui ho amato profondamente, innanzitutto, me stessa. Riscritto, per la quinta e ultima volta, a Roma, città in cui ho imparato che lasciare andare non vuol dire perdere.
Mentre scrivo del mio libro, lui scalpita e dice “ormai posso parlare da solo”.
E che parli, dunque, da solo, senza che io debba inventarmi la sua genesi o la sua parafrasi.
Lo guardo, lo vedo arrivare: eccolo il mio morto che cammina. Mio padre, il mio vecchio amore, cosa farà adesso? Prenderà una tazza, ci verserà il caffè? Cosa fanno i morti fuori dalle chiese e dalle tombe? Quando non devono sbrigare le faccende che gli competono, come farsi chiudere nella bara, presenziare alla funzione, dire una preghiera insieme agli altri, ma a voce così bassa da confondersi con il suono della terra, lasciarsi seppellire senza fare tante storie, credere, credere in Dio per la prima volta e in quel momento capire che il bisogno è più forte dell’identità? E allora tu sei già morto, papà, o è perché ho bisogno che lo credo? Si trascina piano da una stanza all’altra, «Cosa stavo facendo? No, no, non è possibile, ho la testa confusa, molto confusa. Carla! Dove sei? Sento di essere fuori dalla mia testa!». E se morisse ora, proprio adesso? Se si accasciasse a terra, portandosi una mano sul cuore e crollasse, finalmente, sulle ginocchia? Se mi guardasse un’ultima volta e, trasformando la sua smorfia di dolore in un sorriso eterno, se ne andasse così, di colpo, mentre ancora tiene la tazza in mano? Si avvicina verso di me, goffo per questo suo soffrire in ogni parte del corpo; si inclina come uno storpio e mi chiede: «Sono dentro o fuori dalla mia testa?». Non gli rispondo, non si parla con i morti.
Anna Giurickovic Dato