Aspettando l’uscita di La libertà possibile di Margaret Wilkerson Sexton, vi proponiamo la traduzione dell’articolo di Jesse McCarthy del New York Times.
Il tema delle famiglie di colore e del loro rapporto con il progresso razziale in America non è mai stato neutrale. Storici, scienziati sociali e critici da salotto da anni portano avanti feroci dibattiti per difenderlo o condannarlo. Queste polemiche finiscono troppo spesso per mettere in ombra l’esperienza umana che pretendono di comprendere, riducendo delle esistenze complesse a delle caricature.
In questo suo primo romanzo luminoso e straordinariamente maturo, La libertà possibile, Margaret Wilkerson Sexton squarcia questa foschia per gettare una luce inflessibile ma compassionevole su tre generazioni di una famiglia di colore di New Orleans che cercano di fare le migliori scelte possibili in un mondo definito ad ogni angolo da vincoli, pericoli e delusioni – un mondo in cui, come dice uno dei suoi personaggi, «aveva imparato a proprie spese che la vita può costringerti all’infamia».
Scegliere un tema così polarizzante per un romanzo d’esordio è una scelta audace; e il fatto che l’autrice riesca a dar vita ai suoi personaggi senza cedere di un millimetro al sentimentalismo – o al suo gemello cattivo, la patologia – è la conferma che abbiamo a che fare con una scrittrice dal talento e dai nervi fuori dal comune.
In La libertà possibile, Sexton racconta la storia di una famiglia in una spirale discendente, in cui tre trame parallele si intrecciano lungo la strada. Il romanzo si apre nel 1944, con l’amore in erba tra Evelyn, figlia di una famiglia benestante (sua madre è creola, suo padre un dottore nero che si è guadagnato il rispetto della comunità), e Renard, un giovane di un quartiere povero che lavora in un ristorante ma aspira a studiare medicina. Il loro corteggiamento, sebbene ardente, rivela le restrizioni di una società attraversata da profonde divisioni di classe e di razza che soffoca l’ambizione e distorce il desiderio.
Quarant’anni dopo, la figlia di Evelyn, Jackie, è una madre single in difficoltà nella New Orleans degli anni Ottanta, innamorata del padre di suo figlio ma timorosa di soccombere alla dipendenza da crack dell’uomo. Alla fine, conosciamo il figlio di Jackie, T.C., nel 2010, un giovane uomo a una svolta nella sua vita. Attraverso gli occhi di T.C., Sexton ritrae una New Orleans post-Katrina in cui permane ancora l’odore della muffa e abbondano le opportunità per fare soldi facili nelle strade, così come per beccarsi una pallottola o essere arrestati.
Sexton è originaria di Crescent City e uno dei piaceri di questo romanzo è la sua attenzione per i dettaglia della lingua e della cultura locali: un barattolo di labbra di maiale in salamoia, delle aragoste bollite in famiglia, i modi di dire creoli, il suono di Lil Wayne su Q93 FM, così come la vergogna di darsi appuntamento al cinema ed essere costretti a sedersi in quello che allora (nei circoli più educati) era chiamato “il balcone dei negri”.
Viene in mente Salvare le ossa di Jesmyn Ward, ma laddove Ward ha un’ampollosa retorica faulkneriana, Sexton mantiene un naturalismo distaccato che ricorda più la Tayari Jones di Leaving Atlanta. Che si tratti di narrare dell’infanzia di una ragazza di colore, delle speranze della maternità o del richiamo della vita di strada, Sexton pone tutti i suoi personaggi di fronte a scelte di cruciale importanza, chiarendo allo stesso tempo che hanno poco da sperare. Alla fine della fiera, è soprattutto alle donne come Jackie, «con poche opzioni a sua disposizione», che tocca raccogliere i cocci e meravigliarsi della loro capacità di farcela. «Cosa succedeva al volto di una donna distrutta?», si chiede Evelyn mentre veglia su sua sorella che dorme. «Si trasformava per rivelare la perdita oppure complottava con il cuore per nasconderla?».
La libertà possibile racconta dei segni lasciati su una famiglia i cui legami sono stati corrosi e in in alcuni casi si sono spezzati, ma si concentra sulla capacità di resistenza di quei legami e non sulla loro fragilità. La forza di questa visione naturalistica è spiazzante e toccante. Si potrebbe dire che ha il disincantato ottimismo del blues. Sebbene il suo stile differisca nettamente dal lirismo impertinente di Zora Neale Hurston, Sexton osserva i suoi personaggi proprio come Janie vede la sua vita in I loro occhi guardavano Dio – «come un grande albero con le cose sofferte, le cose godute, le cose fatte e disfatte».
Traduzione di Thomas Fazi