L’inconoscibile mistero: tradurre «La divisione delle spoglie» di Paul Scott

•   Il blog di Fazi Editore - Parola ai traduttori
A A A
Paul Scott

Stefano Bortolussi, traduttore del quartetto del Raj, racconta La divisione delle spoglie, il volume conclusivo dell’appassionante saga di Paul Scott.

 

«Hitler era morto, e in Europa la pace regnava da quasi un mese»: comincia così il volume finale del monumentale The Raj Quartet di Paul Scott, in un’India che deve ancora risolvere il “problema giapponese” e affrontare la transizione verso la pace e l’indipendenza.

In questo complesso quadro storico Scott ripresenta i personaggi principali della saga e ne introduce uno nuovo, assegnandogli addirittura un ruolo da protagonista. Si tratta del sergente Guy Perron, ex compagno di scuola di Hari Kumar in Inghilterra e rampollo della buona società britannica, che per scelta ha deciso di non fare carriera nell’esercito come i tipici esponenti della sua classe e di restare “nell’ombra” e osservare, da storico in erba qual è, gli accadimenti della Storia e delle storie che lo circondano. È soprattutto tramite il suo punto di vista, cinico quel che basta e anche alquanto spiritoso (il che per Scott è una benvenuta novità), che seguiamo gli accadimenti di questo ultimo volume del ciclo. Accadimenti che coinvolgono in varia misura tutti, o quasi tutti, i personaggi che abbiamo già incontrato – a partire dallo stesso Hari Kumar, che dopo essere stato accusato dello stupro dell’amata Daphne Manners e incarcerato come prigioniero politico è stato finalmente liberato grazie all’intercessione dell’anziana zia di Daphne, Lady Manners, e conduce una semplice esistenza di insegnante privato a Ranpur.

Sarah Layton, coscienza critica ed etica dell’intera vicenda, in questo volume maturerà definitivamente, si staccherà emotivamente dalla famiglia (in particolare dalla fredda madre e dall’egocentrica sorella minore) e riuscirà a elaborare un rapporto con l’India (e con se stessa) più consapevole e aperto.

Se Sarah è anche in questo quarto volume la coscienza critica della storia, Merrick ne è ancora il nucleo oscuro e deviante: ha fatto carriera nell’esercito, lavorando nell’ombra dei servizi di sicurezza, spiando e tramando e perseguitando. E proprio il rapporto tra l’odiato Merrick e Guy Perron, che nella prima parte del romanzo si trova invischiato nelle sue trame e solo per miracolo riesce a liberarsene, dona al romanzo una certa dose di salutare verve polemica, come se Scott, trovato finalmente in Perron un interprete di ciò che pensa veramente di Merrick, fosse riuscito a superare il suo distacco molto british e a sbilanciarsi in un giudizio morale.

È una gradevole novità in un impianto romanzesco che, nella sua monumentalità, a volte ha rasentato la prosopopea; finalmente Scott trova, nel punto di vista di Perron, il modo di alleggerire i toni senza per questo rinunciare a sondare le oscure profondità dell’animo umano.

In un’altra parte della storia, la più politica, il tono riassume la serietà e la gravità di certe parti dei volumi precedenti; ma questo non fa che creare un interessante contrasto con il resto del romanzo, e di nuovo viene fatto di pensare alle sfaccettature di quel “gioiello” che è l’opera nel suo complesso. Sono le pagine dedicate ai rapporti tra l’anziano politico musulmano Kasim e i due figli, Ahmed e Sayed. Quest’ultimo, reo di avere tradito lo sforzo bellico ed essersi alleato con i giapponesi insieme a molti dei suoi commilitoni nell’illusione di creare un’India libera dal colonialismo inglese, viene processato (e naturalmente a occuparsi del suo caso è il sempiterno Merrick) e radiato senza che suo padre intervenga in suo aiuto: agli occhi dell’anziano politico, la sua è stata una colpa imperdonabile, nei riguardi non tanto dell’Impero quanto dell’India stessa e del suo processo politico di liberazione. Ma è Ahmed, il figlio minore, che conduce un’esistenza di apparente disimpegno come consigliere del conte Bronowskij alla corte del nababbo di Mirat, a offrire al romanzo il “colpo di coda” di una redenzione che è sì drammatica e “nobile”, ma anche, nello sguardo implacabile di Scott, profondamente assurda.

Assurda al punto da rasentare l’incomprensibilità – e qui l’autore sembra stabilire un parallelo, nella scelta di chiudere così il suo affresco, con la stessa realtà e storia dell’India: misteriosa, sfaccettata, tragica, folle ma soprattutto, nel profondo, inconoscibile.

 

Stefano Bortolussi

Privacy Policy   •   Cookie Policy   •   Web Design by Liquid Factory