In occasione dell’uscita in libreria de «Il segreto di Lady Audley» di Mary Elizabeth Braddon, vi proponiamo la postfazione al libro di Sandra Petrignani.
Mary Elizabeth Braddon, nata a Londra in Frith Street al numero 2, Soho, il 4 ottobre 1835, morta il 4 febbraio 1915 a Richmond, elegante sobborgo londinese, in una grande casa, Lichfield, demolita negli anni Trenta, zeppa di libri, quadri, oggetti preziosi e graziosa paccottiglia. Ha scritto ottantacinque romanzi e nove commedie, più un numero imprecisato, ma consistente, di racconti, saggi, e articoli per i giornali, con i quali collaborava regolarmente mentre dirigeva riviste di rilievo come «Temple Bar» e «Belgravia». A un decennio dalla fine del secolo, l’Ottocento, il suo editore si vantava di continuare a ristampare oltre quaranta dei suoi fortunati titoli. Una solida, lucida, spiritosa “signora della scrittura”, non particolarmente bella, ma dai lineamenti decisi come il suo carattere, occhi pungenti, viso largo, portamento maestoso. Sapeva il fatto suo Mary Elizabeth: scrittrice popolare, donna di potere, madre di numerosi figli e moglie di un uomo prestigioso, John Maxwell, suo editore, che fu lei a mantenere durante un tracollo finanziario.
Ci si chiede perché sia stata dimenticata così a lungo. Nemmeno le femministe hanno saputo sollevarla, se non recentemente, dal cono d’ombra che l’ha tenuta nascosta per quasi un secolo, dopo il clamoroso successo in vita. Eppure fu una donna d’eccezione, padrona del proprio destino e anticonformista quel tanto da non precludersi le simpatie della sua epoca e della stessa regina Vittoria, che si dice ne sia stata lettrice entusiasta. Perché arrivasse a occupare il posto che le spetta nella storia della letteratura, bisognava forse che i posteri consumassero due suoi illustri contemporanei di differente peso, ma ugualmente ingombranti, Charles Dickens e Wilkie Collins. E che si riaccendesse un interesse colto intorno alla sensational fiction, quel modo di scrivere a sensazione, carico di colpi di scena, di pazzia e di omicidi, di inchieste poliziesche e di fantasmi, che tanta presa aveva su un pubblico appassionato alle uscite a puntate dei giornali ad alta tiratura.
Per tener dietro alla febbre della serialità, Braddon lavorava a ritmi serrati, sacrificando spesso al meccanismo della trama l’indubbia inclinazione letteraria e stilistica e i suoi principi estetici, che erano chiari e ponderati, come rivelano la produzione saggistica e le lettere ai corrispondenti intellettuali. Anche il romanzo più riuscito, Il segreto di Lady Audley (pubblicato nel 1862 e ambientato nel 1857), risente di qualche passaggio risolto superficialmente. Ma che importa? Al finale si arriva dopo cinquecento pagine (rigidamente divise in tre parti, come vuole il genere) che incalzano il lettore con sontuose meraviglie descrittive e psicologiche, ben dosate porzioni di dra ma e di umorismo, personaggi diversamente seduttivi e sempre credibili, una serie di snodi a sorpresa, eppure plausibili e – volendo – prevedibili.
Ecco: uno fra i segreti della migliore sensational fiction sta proprio nell’ossimoro di “sorpresa prevedibile”. Il lettore si aspetta, o almeno spera, che un dato episodio evolva in un certo modo, che quel personaggio scomparso ricompaia, che quell’esito venga ribaltato dagli eventi e, infatti, tutto ciò prontamente succede nella storia, però secondo un percorso e con accadimenti cui non avrebbe mai pensato, oppure quando ha perso ogni speranza di vederli svolgere. Braddon è maestra in questo modo di narrare: sa quando rallentare e quando far deflagrare i meccanismi nascosti della trama, calibra l’assolo e il concertato, esterni e interni, maschile e femminile, originalità e consuetudini. «Non ho letto Alexandre Dumas e Wilkie Collins per niente», fa dire a Robert Audley ne Il segreto di Lady Audley. «Conosco i loro trucchi: entrare furtivamente dalle porte alle tue spalle e schiacciare i volti pallidi contro i vetri delle finestre e fare tutte quelle sciocchezze al crepuscolo». Eppure non per questo riconquista l’attenzione dopo quasi due secoli, non per questo soltanto riaccende un appassionato piacere della lettura che va ben oltre il frenetico gusto di precipitarsi verso la conclusione per “sapere come va a finire” ed essere ancora una volta confermati in una rassicurante visione del mondo in cui il bene trionfa sul male. Se c’è grandezza in Braddon, questa sta in un sottotetto che corre parallelo al libro e che ci racconta un’altra storia: quella del mondo visto da Braddon, un punto di vista sottile, pieno di grazia, d’intelligenza, con quel tanto di salottiero che salva da slittamenti moralistici e con quel tanto di umorale che evade dalla pesante correttezza di ragionamenti inconfutabili.
Di mondo vero, ossia di Inghilterra vera con le sue classi sociali, con le sue città e le sue campagne, Mary Elizabeth ne aveva visto parecchio, non parlava per sentito dire. Era la figlia di genitori separati in una società che perdonava pochissimo agli irregolari. Il padre era un avvocato perdigiorno, proprio come Robert Audley, ma non perbene come lui, anzi: il signor Braddon si ubriacava, giocava d’azzardo e andava a donne (più simile dunque, nel romanzo, al padre di Lady Audley). La madre di Mary Elizabeth non disdegnava di spingere la figlia a farsi valere per la sua giovane avvenenza e i molti talenti. Le permise di calcare le scene, sia pure sotto il falso nome di Mary Seyton e sia pure nel giro appartato della provincia, rischiando di condannarla allo scandalo di una vita promiscua e disprezzata. Elizabeth, comunque, non era tipo da subire le pressioni materne, aveva abbastanza determinazione di suo. Sapeva farsi proteggere da uomini influenti già prima di trovare il compagno ideale per una ragazza “poco raccomandabile” come lei. L’irlandese John Maxwell era sposato e aveva cinque figli, ma la moglie, come in un romanzo gotico, era pazza, affidata alle cure della famiglia in Irlanda. Così Elizabeth e John poterono sposarsi solo alla morte della povera malata, nel 1874, dopo tredici anni di convivenza. Era una coppia chiacchierata ma potente, e la buona società londinese fece finta di credere all’inserzione apparsa sui giornali che nel 1861 strombazzava un matrimonio non ancora avvenuto. La fertilità di Braddon produsse anche i figli in grande quantità, sei. Non doveva essere una facile quotidianità la sua, ma tale da fornirle, per i libri, materiale prezioso a comporre psicologie complesse, un’umanità varia e molto caratterizzata.
Personaggi principali a parte, che risentono a volte di rigidità iconografiche (è il caso di Lucy Audley, per esempio, disegnata dichiaratamente sulle immagini trionfanti di preraffaellite dames sans merci), è con certe Mrs Barkamb, certe Mrs Vincent e Miss Tonks, certi Mr Dawson e Luke Marks, o magari un maggiordomo che non apre bocca, ma si limita a pochi gesti definitivamente espressivi, che Elizabeth Braddon costruisce l’affresco di una convincente commedia umana. Sono le passeggiate londinesi di Robert Audley, i suoi spostamenti in treno o la piovosa realtà del Dorsetshire e lo squallido abbandono invernale di una cittadina di villeggiatura come Peckham Grove a liberare per sempre un libro come Il segreto di Lady Audley dalla monotonia del “sensazionale” e dalle eredità “gotiche” per consegnarlo alla carnosa consistenza di un romanzo che tratteggia geografie e stili di vita, caratteri e riti sociali. Sono le pieghe dei velluti di Lucy, il suo sguardo perso sulle fiamme del caminetto, i suoi sorrisi increspati, le sue impercettibili dissimulazioni a fare persino di lei – il personaggio più stereotipato del racconto – una figura con una verità psicologica accettabile, dove il bianco e il nero si confondono, e la dicotomia usurata della donna demoniaca sotto sembianze angeliche si scioglie in autenticità, in una moderna scissione dell’Io psicotico.
Lucy Audley è perfettamente consapevole delle proprie ragioni e della propria crudeltà, delle proprie motivazioni egoistiche e revanscistiche e accusa il destino, “il fato”, per essere diventata malvagia. È stata sfavorita dalla sorte e pretende di ottenere anche con il crimine quel che ritiene le spetti. Si tratta, infatti, di un personaggio che non nasce solo da necessità narrative, ma da un reale sospetto della scrittrice nei riguardi del sesso femminile. La cosa più gentile che riesce a dire delle donne è che sono “trottoline rivestite di fine tessuto rosa o azzurro”. Nel romanzo si sprecano tirate contro di loro, attribuite tutte a Robert, trasparente trasposizione dell’autrice stessa che ne fa un molto affascinante eroe effeminato e blasé. «Rammentando un centinaio di vicende di perfidia femminile, rabbrividì pensando fino a che punto poteva essere impari la lotta tra lui e la moglie dello zio». «Fino a che punto le donne sono spietate le une con le altre, pensò». E: «Miss Tonks rientrò mentre il giovane avvocato meditava sull’infamia del sesso femminile». Per arrivare in crescendo a un violento monologo contro il matriarcato e la mancanza di pigrizia delle donne in cui sostiene che «dietro a ogni cattiveria c’era una donna».
Non sappiamo quali molle nascoste portassero Mary Elizabeth a simili conclusioni. Certo stupisce tanto deprezzamento per l’attivismo femminile da parte di un’infaticabile lavoratrice qual era lei, ancor più se si pensa a Robert Audley, personaggio principale e suo alter ego: un viaggiatore che preferirebbe star fermo, innamorato che detesta i sentimenti e investigatore suo malgrado. Che anche Braddon sentisse di essere una scrittrice malgrado se stessa?