Andavo a casa Guastaldi appena sveglia e attraversavo il giardino con il batticuore, temendo di incontrare il loro orrendo cane, tutto grigio e spinoso, informe, che zoppicava, non abbaiava mai e mordeva spesso. Portava il nome del marito della nonna, che era morto giovane, lasciandole una figlia e un immenso patrimonio. Piermaria mangiava con lei, dormiva con lei nella camera invasa dalle pile dei numeri di «Oggi» e «Gente» che la nonna sfogliava di frequente, tirandone delle conclusioni sorprendenti.
«La Laurina non è più vergine», tuonò quella mattina d’agosto a colazione in terrazza, mentre l’animale le leccava i cornflakes dalla scodella. La nonna sollevò la testa dal reportage monegasco sul saggio di danza di Caroline e ci fissò lungamente negli occhi. Guardò anche me, che ero seduta a tavola con loro.
Per fortuna la Laurina dormiva ancora, o forse non era tornata a casa quella notte, nessuno se ne preoccupava molto e tanto meno sua madre, la bellissima Donna Marisa, dedita ad aspettare il marito adorato, sempre assente, e a rimpiazzarlo con amanti di passaggio che disprezzava. Donna Marisa sollevò gli occhi dalla sua tazza di Ovomaltina e disse sorridendo: «Alla buon’ora!».
Io non sapevo dove guardare, non mi sembrava opportuno penetrare negli intimi segreti famigliari, anche se nessun altro ne era imbarazzato. I pinoli cadevano a pioggia sulla tavola apparecchiata, le gazze ornavano il prato come uccelli del paradiso, solo Daria, la mia amica, il mio doppio, la mia gemella di cuore, mi guardò e scoppiò in una risata nervosa. «Te l’avevo detto!», sussurrò.
La Laurina aveva solo tredici anni e un corpo stupendo. Di viso era così così, ma chi poteva interessarsi al suo viso proprio lì al mare, dove lo splendore delle sue natiche sfidava il sole! Quando poi si era tolta il pezzo di sopra, per seguire la nuova moda, alcuni uomini si erano messi a piangere.
La nonna conosceva anche il nome del colpevole: con tutti i nobili e i miliardari che c’erano in spiaggia, naturalmente la Laurina era andata a farsi sverginare proprio dal buttero che teneva i cavalli del maneggio, che era sposato e neanche tanto bello! Puzzava di sudore e di polvere, ma grazie alle galoppate che sono afrodisiache si faceva tutte le ragazze, e tutte le mogli. Se le portava lontano nella macchia, così quando scendevano per riposarsi un attimo erano già pronte, intontite dal caldo e dagli odori di rosmarino si prendevano per delle ninfe, dimenticavano in che epoca erano e credevano di avere a che fare con un evento soprannaturale. Tornavano a casa disperate di doversi contentare daccapo del marito, tornavano a casa incinte anche se erano fidanzate con un buon partito, tornavano a casa felici, come la Laurina, che capiva finalmente a cosa mirava quel languore, quel fremere e quella smania che l’avevano tormentata negli ultimi mesi. E – miracolo – il cinico buttero, che aveva vendicato la sua rozza stirpe servendosi di tutte le nobildonne dei dintorni, non seppe resistere al fascino innocente della ragazza, e appena scesi da cavallo, ritrovandosela addosso piena di fiducia, bruciante di energia, scivolosa come un pesce, chiuse gli occhi e si raccomandò mentalmente alla Madonna, avendo capito che era perduto.
Dunque quella mattina a colazione ci fu la sensazione generale che qualcosa di importante nell’equilibrio della casa fosse cambiato e che il potere incontrastato di Donna Marisa nel dominio della femminilità cominciasse a declinare. Non era certo la mia gemella di anima che avrebbe potuto rubarglielo, Daria, nata donna per sbaglio, la cui virilità faceva impallidire tutti i maschi, quando li sfidava a botte, a nuoto, a parolacce, e vinceva sempre. Daria aveva imparato tutto prima di me, ma questo non le dava un volgare senso di superiorità sulla sottoscritta: anzi! Aumentava il suo amore e il suo desiderio di aiutarmi. Anche quando mi teneva la testa sott’acqua fino quasi ad asfissiarmi lo faceva per istruirmi, con quell’affetto feroce che l’avrebbe quasi spinta a uccidermi per saziarlo. Ci arrampicavamo insieme sugli alberi, e io mi scorticavo le ginocchia e le mani, mentre lei saliva su come un gatto, restava appollaiata serena come un uccello e non mi sarei meravigliata di vederla partire in volo. Mi dondolavo sui rami, facevo capriole e salti sperando che mi ammirasse, ma nei suoi occhi neri avidi e disperati d’amore per me, vedevo solo il disprezzo: «Gira almeno due volte, due volte!», implorava davanti alle mie modeste capacità. Quando non ci riuscivo, dalla rabbia mi buttava giù e una volta mi storsi così male una caviglia che non mi fu possibile camminare per giorni. Lei allora mi portò dappertutto sulle spalle, in giro nel bosco e sulla spiaggia. Daria mi amava perché il dolore e la fatica io li sentivo per lei, e quando piangevo perché eravamo andate troppo lontano a nuoto e temevo di non saper tornare, intuivo che cercava questo in me, la capacità di commuoversi, di avere un po’ di paura e di buon senso. Poi ripartiva imperterrita, con quei muscoli d’acciaio che intimorivano i pesci.
Così quella mattina a colazione, sentendo parlare in quel modo di sua sorella, non poté nascondere una smorfia di disprezzo e sputò il resto del pane e burro sul prato con una bestemmia, attirandosi i rimproveri di sua madre. Io lo capivo che il vero motivo della sua reazione era la gelosia, così cercai di consolarla dicendole che era bella, che tanti ragazzi erano innamorati di lei, e Daria mi picchiò perché l’avevo compatita.
La notizia riguardante la Laurina arrivava nel momento sbagliato, cioè quando si aspettava la visita stagionale che il Cavaliere faceva alla sua famiglia. Nessuno, nemmeno i più pettegoli e i più informati avevano la minima idea di che cosa il Cavaliere si occupasse, se avesse un lavoro, o se vivesse solo delle ricchezze immense della moglie, che odiava. Donna Marisa rispondeva a questo odio con l’adorazione, e faceva preparativi grandiosi in occasione delle sue visite brevissime e molto rarefatte nel tempo. Tutti i cassetti di casa venivano vuotati e spolverati, i servizi d’argento lucidati, la biancheria ricamata rinfrescata, in cucina aleggiava un profumo di manicaretti, e un violinista era pagato per suonare da mattina a sera, accentuando l’atmosfera romantica. A volte, purtroppo, la venuta del marito si rivelava un falso allarme, allora Donna Marisa disfaceva i boccoli lucenti nell’acqua di mare, piangeva, gettava via tutte le buone cose da mangiare e andava a richiamare quei suoi bellissimi amanti passeggeri, di cui si serviva per non disperarsi.
Quando arrivava, il Cavaliere era preceduto dalle Rolls della scorta, che si snocciolavano una dietro l’altra invadendo il parcheggio della villa, mentre lui, al colmo dell’eleganza, le seguiva con un motorino Solex scalcagnato, l’unica cosa con cui accettava di spostarsi.
Il Cavaliere scendeva e gli uccelli facevano silenzio, persino le cicale zittivano per qualche minuto, anche loro sorprese dalla stupefacente presenza.
La prima volta che lo vidi, dopo averne sentito parlare con tanto entusiasmo, ne fui piuttosto delusa: un tappetto che arrivava a mala pena al mento della moglie, con le spalle curve e due braccini da bambino, le gambe storte. Non credevo ai miei occhi. Donna Marisa invece, trasfigurata dalla gioia, sembrava ancora più bella: la voce flautata, i movimenti sinuosi, si precipitava in casa portando le valige, si buttava sul letto speranzosa, ma lui neanche si accorgeva della sua esistenza. Dava un bacetto alle figlie, girava alla larga dal cane della vecchia che lo onorava di un mugolio più intenso del solito, e correva a occuparsi dell’unico essere che lo interessasse: il primogenito nato ebete.
Giuliano stava sempre in una stanza, sbavava e fissava un punto lontano, anche se non era cieco. Il padre ammirava con gli occhi liquidi di tenerezza la sua bellezza straordinaria, e gli portava dai migliori negozi i capi più eleganti. Giuliano li indossava, e dopo pochi attimi li lacerava con le sue mani poderose e li riduceva in stracci. Il povero ragazzo distruggeva tutto quello che aveva intorno; la sua camera era un ammasso di trucioli, di cenci, di briciole, e dormiva per terra accucciato come un animale. Il Cavaliere era convinto che la sua idiozia fosse un fenomeno passeggero e aspettava il giorno in cui Giuliano si sarebbe “risvegliato”.
«Si è svegliato?», era la prima cosa che domandava alla moglie scendendo dal Solex. Donna Marisa ogni volta era costretta a chinare il capo tristemente, davanti a lui che la guardava con rancore, attribuendole tutta la responsabilità della disgrazia. La madre sognava che Giuliano rinsavisse, con l’egoista speranza che il marito l’avrebbe perdonata e amata di nuovo. Le malelingue dicevano però che egli non l’avesse amata mai, che l’avesse presa per i soldi, e restava intatto il mistero del perché una donna con tutte quelle qualità esterne e interne avesse potuto innamorarsi di un tipo simile.
Il Cavaliere aveva un’aura speciale che non era fatta di niente, né di intelligenza né di sensibilità, neanche di forza o di furbizia, era solo magnetico. Arrivava e le cicale si zittivano, andava sulla spiaggia e il mare si calmava accucciandosi ai suoi piedi. Di sera la moglie si metteva nel letto, tutta unta di oli orientali e ricoperta di veli, e lui si addormentava dopo cinque minuti.
Aveva un successo simile in società dove era considerato un gran personaggio, e nessuno sapeva perché, visto che quando era invitato nei salotti politici e culturali più ambiti si limitava a sgranocchiare noccioline e a dare occhiate furtive all’orologio.
Le uniche a non farsi imbambolare erano le figlie. Lo consideravano meno che niente, e imploravano la madre di rassicurarle che non era lui il vero padre, che erano nate da uno qualsiasi dei suoi amanti. Purtroppo Donna Marisa era stata attenta, e anche in questo caso non poteva fare altro che abbassare la testa in silenzio. Così quando sapevano che il padre stava per tornare, le due fanciulle sparivano e la madre era costretta a mentire, affermando che erano in un collegio svizzero a imparare l’inglese, o invitate nel panfilo di amici. Qualsiasi spiegazione altisonante andava bene al Cavaliere, che si curava del prestigio della sua stirpe più di qualsiasi altra cosa. Il suo petto d’uccellino si gonfiava d’orgoglio sapendo che la maggiore era fidanzata con il figlio di un ministro e la minore con un divo del cinema. Donna Marisa non lesinava nelle frottole, erano così facili da dire, e facevano talmente bene a tutti.
Quella mattina, dunque, insieme alla sentenza sulla verginità perduta della Laurina, venne fuori anche un’altra notizia, e sempre nel solito modo: la nonna sollevò la testa da un appassionante reportage sulla presentazione di Romina al casolare dei suoceri pugliesi, e scandì lapidaria: «Ugonotto sta arrivando».
Non era previsto così presto, e Donna Marisa sbiancò. Sul tavolo del giardino la tovaglia stropicciata era piena di macchie di marmellata, nel letto matrimoniale il suo splendido amante mulatto si rigirava ancora cullato dal sonno, una ragazzina qualunque, figlia di borghesi appena benestanti – io – condivideva l’amicizia della figlia maggiore, la minore non aveva dormito a casa, e Giuliano aveva distrutto a morsi il vassoio della colazione. Donna Marisa stava appena ricapitolando tutto questo quando il fatidico rumore del Solex arrugginito minacciò in lontananza, sovrastando il piagnucolio delle cicale. Qualcosa di straordinario doveva essere successo, pensò la povera donna, perché non fosse neanche preceduto dal corteggio delle Rolls.
Il Cavaliere infatti era bianco, tremava, aveva le occhiaie viola come qualcuno che non ha mangiato né dormito. La moglie si gettò su di lui per abbracciarlo e dal modo in cui non la respinse sdegnosamente capì che il peggio doveva essere accaduto. «È tornato», le disse, prima di svenire sulla ghiaia.