Mirador. Irène Némirovsky, mia madre

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In occasione dell’uscita nelle sale italiane del film Suite francese, riproponiamo Mirador, la biografia dell’amatissima Irène Nemirovsky scritta in prima persona dalla figlia, la bambina che, insieme alla sorella Denise, portò in salvo il testo di Suite francese, destinato a diventare un bestseller in tutto il mondo. 

 

Sono seduta sul mio maglione azzurro, al centro di un oceano di foglie fradicie e inzuppate dal temporale della notte scorsa, come su una zattera, con le gambe ripiegate sotto di me. Rovesciando la testa all’indietro, scorgo un lembo di cielo rigato di verde scuro. È dello stesso colore fragile e tenue del fazzoletto da giovane esploratrice di mia figlia Denise, uno scampolo di stoffa sbiadita che lei si ostina ad annodarsi al collo, poiché le ricorda i giorni in cui tutto era normale. Ora che le grida dei bambini si sono placate, il silenzio si anima di palpiti e rumori: sento in lontananza il cigolio di una sega che sta tagliando il tronco di una quercia, i richiami dei boscaioli smorzati dalla distanza e, più vicino a me, il ronzio basso e ostinato del calabrone che descrive cerchi infati­cabili attorno al mio vestito a fiori, il cinguettio stridulo di un uccellino, il breve sciabordio di una pozza ricoperta di schiuma verdastra dove all’improvviso spunta una bolla, la corteccia scricchiolante di un pino. L’aria sa di linfa e d’erba bagnata. Sulla fronte mi cadono grosse gocce fredde che imperlano in fila indiana il dorso lucente di una foglia patinata dalla pioggia. Il collo piegato all’indietro mi fa male, appesantito com’è dalla massa dei capelli raccolti in una retina a maglie larghe, e i gomiti affondano nella terra grassa. Sono un po’ ebbra a furia di fissare il cielo. Il mondo mi pare oggi troppo fresco e troppo giovane per sprofondare già nelle tenebre.
Il mio umore è grave ma calmo dopo l’isteria di ieri che è stata seguita da una crisi di asma la notte scorsa: avevo commesso l’errore di rileggere, proprio in questo boschetto oppresso dal caldo afoso che precede il temporale, il tessuto d’insulsaggini che scrivevo a ventisei anni. Che idea imbecille portarmi dietro questi foglietti compiacenti fino a Issy-l’Évêque, il villaggio della Saône-et-Loire dove ci siamo rifugiati da due anni. Soffocavo di furore impotente nel vedere in questo specchio la mia immagine, egoista, credulona e vana, e confesso di aver pianto di rabbia, lunga distesa sulla terra arida, martellandola con i pugni. No, non è una «quieta felicità» ad apparirmi come il destino più plausibile per mia figlia, la cui «testolina bionda» poco fa si allontanava laggiù, in fondo al sentiero. La stella gialla che porta da un mese sul petto mostra invece che la Francia, «paese della mode­razione, della libertà, nonché della generosità», ha una maniera tutta particolare di adottare quelli che l’amano. Tento di rinfrancarmi dicendomi che avevo dodici anni come lei nel 1915, in un periodo in cui le cose non si prospettavano migliori, e che alla fine me la sono cavata. Ma pensare a tutti i rimproveri che la mia generazione, nel 1919, ha potuto rivolgere ai propri genitori – cecità, pigrizia mentale, egoismo – e come poi, in fin dei conti, abbiamo mostrato altrettanta poca lucidità di loro!

Non è neppure uno sguardo pieno di tenerezza quello che rivolgo ora a quella «ragazza frivola, brillante, amata e ricercata», troppo impegnata a far baldoria per notare quello che le stava accadendo intorno. Non li vedeva forse già nel 1921 o nel 1922, uscendo dalla Sorbona, quei Camelots du Roi con il basco in testa, che percorrevano in lungo e in largo boulevard Saint-Michel armati di mazze piombate, e gli studenti dell’Action française, che venivano a disturbare le lezioni dei professori ebrei? Non aveva intuito nulla nel 1923, quando occupammo la Ruhr? Mi accorgo con orrore che di quell’anno, in cui compivo vent’anni, conservo solo il ricordo di una splendida cena al Dôme con i miei genitori. A tavola avevamo parlato dell’ultimissimo scandalo in ordine di tempo: il clamoroso passaggio a Parigi di Isadora Duncan e del suo bizzarro marito – una nostra vecchia conoscenza –, quell’Esenin dai capelli rossi che si era appena fatto espellere dal Claridge dopo averne distrutto i mobili durante una notte di ubriachezza. Uscendo in boulevard Montparnasse, un po’ brilli, ci ritrovammo spintonati in mezzo a una corsa furiosa: erano giovani membri del sindacato comunista che avevano da poco finito di manifestare contro l’invio delle truppe francesi in Germania e che rincorrevano le Jeunesses Patriotes di Pierre Taittinger. Vedo ancora mio padre afferrarmi per il braccio – avevo barcollato sui tacchi alti –, raddrizzarsi gli occhiali e spazzolarsi con il dorso della mano una manica dello smoking. Lo sento ancora ringraziare l’agente con la mantellina buttata su una spalla, il manganello in pugno, che si era cortesemente fermato per raccogliergli il cappello. Mi sembra surreale adesso quell’incontro in cui facevano la loro comparsa tutti gli attori del futuro dramma.
Poco fa, quando sono uscita di casa per incamminarmi fino al bosco, ho preso con me, passando, i bambini del villaggio che non hanno nulla da fare, poiché è giovedì, e che mi seguono allegramente. Su ogni lato della strada, le spighe di grano quasi maturo s’innalzavano come un erpice giallo. Babet, la più piccola, mi teneva la mano. Gli altri correvano, giocavano a rialzo, ritrovavano i tracciati delle campane appena cancellate dalla pioggia. Sulle scarpate ho raccolto due fili d’erba, uno corto e uno lungo, che ho nascosto tra due dita, e le ho domandato alla maniera russa: «Gallo o gallina?». Ha vinto. Per congratularmi le ho regalato un papavero. Mi ha sorriso con tutto il suo bel faccino rotondo e ha fatto scivolare il fiore tra due denti da latte. Il piccolo Lulu, il suo amichetto del cuore, cinque anni come lei, e con il quale combina tutte le marachelle possibili, si è messo a cantare con la sua voce in falsetto: «Bel papavero, lor signore! Bel papavero, lor signori!». Tutti hanno riso. E stavolta, quando al margine del bosco ho rimandato indietro i bambini, Denise, che aveva un’aria allegra come gli altri, ha preso la sorellina per mano e, senza pregarmi di tenerla con me, è andata via anche lei di corsa, con i capelli biondi al vento. È abituata sin dalla nascita a lasciarmi lavorare in pace, ma negli ultimi tempi percepisce la nostra angoscia e le è molto difficile allontanarsi da noi.
Sento che anche oggi il manoscritto, quella Suite francese in tre volumi di cui vorrei fare – progetto più che ambizioso – l’equivalente di Guerra e pace sul tema del conflitto in corso, non progredirà molto. Ho aperto il mio grosso quaderno rilegato in cuoio che riempio, senza margini, con una grafia minuscola, vere e proprie zampe di gallina che mio marito faticherà a battere a macchina un giorno, come fa con tutti i miei manoscritti, se ne avrà mai l’occasione: devo usarlo con parsimonia, perché non si trova più da nessuna parte questa carta spessa, bianca, pregiata, e non accetto l’idea di ricorrere ai pessimi quaderni scolastici che ci si può ancora procurare nell’emporio del villaggio. Ho svitato la mia ultima penna stilografica, l’unica che rimane di tutte quelle che mi ha regalato Michel e che per il mio compleanno, nel 1937, era accompagnata da quattro righe stupide e affettuose: «Mi chiamo Doret. Purché mamma Minouche mi ami! Sono nata per lei e spero che si servirà di me come si serve della mia sorella maggiore Bel Azur, che così potrà riposarsi di tanto in tanto». C’era un altro messaggio: «Siamo cinquecento franchi francesi. Preghiamo mamma Minouche d’impiegarci per cose belle da mettersi addosso, caro tesoro». Ho riempito Doret con quell’inchiostro del colore dei mari del Sud che prediligo e che è diventato anch’esso introvabile. Da parte mia, tento di convincermi, senza gran successo, che tutto ciò avrà fine un giorno. Scrivendo Suite francese mi dico che devo fare qualcosa di grande e smettere di chiedermi: a che pro? Mi capita troppo spesso di temere per i miei libri ancora più che per me stessa, d’immaginarli distrutti, cancellati per sempre dalla memoria umana.

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