Piccolo diario del linguaggio libero. Tradurre Rubem Fonseca

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Fonseca

Daniele Petruccioli, traduttore de Il caso Morel di Rubem Fonseca, traccia un profilo di questo importante autore brasiliano e svela qualche retroscena del suo delicato lavoro di traduzione.

Il caso Morel è il primo romanzo di Rubem Fonseca.
Ma non è un esordio.
Ciò non toglie che sia stato una bomba.
Andiamo con ordine però.

Chi è Rubem Fonseca? O meglio, chi è stato, visto che è morto nel 2020, a quasi novantacinque anni?
Nato nel Minas Gerais, uno Stato povero dell’interno brasiliano, figlio di immigrati portoghesi trasferitisi presto a Rio, Rubem Fonseca studiò Legge nella allora capitale, poi entrò in polizia dove fece una carriera veloce, diventando commissario già a ventisette anni.
Era particolarmente versato in psicologia e sociologia, venne mandato a specializzarsi negli Stati Uniti. Sebbene abbia sempre lavorato soprattutto in ufficio, l’esperienza in polizia sarà fondamentale per la sua lunghissima carriera letteraria, e di grande successo sia quanto a pubblico che quanto a critica (nel 2003 ha vinto il Premio Camões, il maggior riconoscimento letterario in assoluto per un autore di lingua portoghese – sia egli nato in Portogallo, Angola, Mozambico, Capo Verde, São Tomé, Timor Leste o appunto brasiliano come il nostro autore).
Lasciata infatti la polizia nel 1962, già nel 1963 esce il suo primo libro di racconti. Ne pubblicherà altri tre prima del Caso Morel, tutti con tale successo di pubblico che quando viene annunciato un romanzo suo le aspettative sono altissime, in Brasile.
Nel frattempo però, c’era stato un piccolo particolare, in patria: il colpo di Stato militare del 1964, che instaurò in Brasile una dittatura che, almeno dal 1970, si fece sanguinosa. Inizialmente, Rubem Fonseca non sembrava contrario alla dittatura militare, ma ben presto, sotto i colpi delle leggi sulla censura sempre più restrittive, tese a cambiare idea.
Fonseca era infatti, essenzialmente, un libertario. Non sopportava l’idea che qualcuno gli dicesse cosa dire, né come dirlo. Questo punto, e le contraddizioni che comporta nei confronti dell’allora potere militare brasiliano, è fondamentale per capire lui e la sua scrittura.

Rubem Fonseca è un po’ il Bukowski brasiliano: sembra dissacrare completamente l’oggetto letterario, lo scuote dalle basi usando il genere, il turpiloquio, il paradossale e lo scandalistico, ma – come il suo grande omologo nordamericano – lo fa da grande poeta qual è.
Per Fonseca il fulcro è meno la marginalità che il poliziesco, la violenza, la tremenda disparità economica e sociale che devastava e devasta la società brasiliana, spaccandola in due. Ma il succo è lo stesso: attraverso le sue incredibili storie paradossali, provocatorie, estreme, dipinge una condizione umana di solitudine e di incomprensione siderali, dove l’amore e l’autenticità rischiano di sopravvivere solo a condizione di ribaltare ogni convinzione e soprattutto ogni convenzione.
Anche per quanto riguarda il linguaggio.

Ed è qui che subentra il ruolo delicato di chi traduce.
Come traduttore, ho dovuto alzare il muso all’aria come un segugio e seguire con il naso della lingua le tracce di poesia nascoste nei paradossi del linguaggio di questo immenso, immenso scrittore brasiliano.
Allora, in una lista di oggetti erotici dei quali si descrive nel dettaglio il funzionamento, bisogna saper cercare le parole della siderale solitudine onanistica di un certo tipo d’uomo di successo.
Oppure, nel sanguinoso racconto di una coppia che fa l’amore con violenza pressoché omicida, trovare gli aggettivi più caldi di tenerezza e amore.

Perché questo è Rubem Fonseca: un grande autore che fa finta di voler scioccare mentre parla, delicatamente, dei nostri segreti più profondi.

 

Daniele Petruccioli

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