Prologo di «Mary Lavelle»

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mary lavelle

In occasione dell’uscita in libreria di Mary Lavelle di Kate O’Brien, vi proponiamo il prologo di questo delizioso romanzo.

 

Il bauletto di una miss che varca i Pirenei non è faccenda di gran conto.
Modesto in genere, contiene giusto il necessario. Ma non è un semplice bagaglio: lo distingue l’aspetto comico, patetico o rassicurante dello sguardo che vi si posa. Sia vecchio che nuovo, ha ancora tutta l’aria, come chi a casa l’ha impacchettato ed etichettato, di non aver mai oltrepassato i confini di una parrocchia: un aspetto comico, patetico o rassicurante, appunto.
Sui banchi della dogana, un baule così mantiene la propria dignità: all’esame dei doganieri mostra gli averi di una giovane donna che si avvia a guadagnarsi il pane. Nello scomparto superiore si vedranno due cappelli estivi accanto a quello rifoderato dello scorso inverno, e se si solleva la carta sottile, si troveranno un abitino da giorno, di trina, e due abiti da sera, uno vecchio e uno nuovo. Tocca al tempo, non ai doganieri, rivelare se l’istitutrice ne abbia davvero bisogno, ma intanto la zia mondana di Dublino avrà insistito sulla loro necessità. «È così tenera vestita di rosa la bambina, e non si sa mai…». Quando il piano dello scomparto viene alzato, la proprietaria del bauletto, con l’ansia di chi si trova a disposizione delle autorità, spera già in una riduzione della pena, mentre i doganieri esaminano comodamente il cofanetto della cipria, l’acqua di lavanda, il talco, e i fazzoletti lindi, le calze rammendate, le calze nuove. I guanti che odorano di petrolio, le camicette di pizzo, i maglioni di lana, le spazzole d’argento, dono della madre per i suoi sedici anni. Una scatolina da cucito e un astuccio da manicure. Niente di cui vergognarsi. E poi ancora, camiciole e camicie da notte. Mentre le mani dei doganieri rovistano tra quelle cosette intime, l’inquietudine della proprietaria cresce sempre più, finché non si trovano un paio di scarpe incartate, una manciata di libri e, per finire, le cianfrusaglie dei regalini d’addio. Quindi il baule viene sigillato e licenziato con uno scarabocchio di gesso. La ragazza e il suo equipaggiamento per una vita decorosa sono pronti a fare il loro ingresso in Spagna. Ma stringendo le cinghie, quei funzionari non pensano certo che il dado sia tratto. Né lo pensa la proprietaria del bauletto, preoccupata perché non ricorda dove ha messo il frasario, o per la mancia da dare al facchino. Eppure le cinghie serrate e il segno col gesso sono gesti del destino, e lei è ormai in marcia, in compagnia del suo bauletto, con l’incarico di sopravvivere.
Un incarico banale da qualunque prospettiva lo si guardi, salvo per la creatura che quella missione deve compiere. Da quell’angolo delle montagne e della storia nei pressi di Irun si è a un passo per disturbare la troppo facile e piatta derisione delle montagne e della storia, ma quasi tutte le mattine dell’anno i Pirenei sono nascosti dietro il velo della pioggia, e per loro fortuna i giovani del posto sono spesso indifferenti o dimentichi del passato, cosa che forse gli hanno insegnato a fare. Così né le altitudini né i fantasmi possono invadere i loro triti dileggi, quanto invece una ragazza ignara che passa loro accanto, assorta nel cammino. Il futuro è il suo tesoro, piccolo ma proporzionato, come non lo sono né la storia né le montagne. Il futuro le appartiene, quelle no. E il fatto che ne trascorrerà un’esigua parte, un anno o due, sotto un cielo straniero, tra voci e volti che non le diranno nulla di pertinente, le appare un episodio normale, una parentesi che non potrà certo ampliare la distanza sicura che corre tra lei e la sua realtà, i suoi sogni, e il luogo dove la sua vita infine sboccerà. Forgiata tanto da fuori quanto da dentro, dal caso come dal preconcetto, non sa che la giovinezza è il futuro che diventa presente e passato per sempre, non sa che quella che ognuno chiama la propria realtà avanza verso di lei. Non sa che fin quando il cuore e l’orologio scandiscono il loro tempo la vita non può restare immobile.
Ci sono molte cose che un’istitutrice non sa. Nel 1922, per esempio, l’anno della nostra storia, non sapeva né più né meno di chiunque altro che nove anni dopo una rivoluzione avrebbe praticamente spazzato via quella professione obsoleta e mal definita. Ma non aveva idea che fosse obsoleta, e se anche lo avesse pensato non le sarebbe importato molto perché, avendola scelta come espediente – per quanto la scelta si fosse dimostrata apparentemente obbligata –, rivelava il suo individualismo, la precarietà di chi vive alla giornata, capace di sognare ma non di marciare austeramente nella colonna delle donne che si guadagnano il pane, o in una colonna qualsiasi. Sceglie di fare l’istitutrice perché non la sua intelligenza, ma le sue antenne percettive le dicono che tale occupazione la lascerà libera d’esprimere la sua personalità; sceglie quella professione perché non vuole essere nient’altro che se stessa per lungo tempo, perché forse ama un ragazzo in Irlanda – tutte le governanti inglesi in Spagna vengono dall’Irlanda –, oppure perché ama l’amore, o l’indefinitezza, chissà, o la propria casa o la propria religione: perché, insomma, ha tutto questo dentro che la esime garbatamente dalla contingenza. Sa quale sarà il suo posto, e sarà felice di occuparlo. Intanto può dimostrarsi utile e responsabile, docile alle richieste dei suoi datori di lavoro. Lieta di osservare scene nuove, e divertita all’idea di assaporare un’altra lingua. Un’individualista a cui non dispiace temporeggiare. Una persona umile ma aperta all’amicizia, con delle radici e discretamente compiaciuta di sé, varca così i Pirenei con il suo modesto bauletto.

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