In occasione dell’uscita di Sonata d’inverno, Francesca Frigerio racconta la sua esperienza di traduzione con il romanzo di Dorothy Edwards.
Dorothy Edwards (1903-34) nacque in una piccola cittadina mineraria del Galles del sud. Dal padre, socialista, vegetariano, nudista, ereditò una certa propensione all’anticonformismo che la spinse a desiderare una vita più grande di quella che avrebbe potuto condurre in una realtà di provincia. Si iscrisse all’università per studiare il greco e la filosofia, ma sognava di diventare una cantante d’opera e di andare a Milano per completare la propria formazione musicale. Intanto, scriveva. Winter Sonata (1928), l’unico suo romanzo completato e dato alle stampe, racconta l’amore per la musica sin dal titolo (al pari della raccolta di racconti che lo precedette nel 1927, Rhapsody). La sonata però rappresenta un modello anche formale per un testo suddiviso in quattro capitoli/movimenti nel quale termini, temi, scene si ripetono e si rincorrono caricandosi di significati a ogni nuovo riaffiorare. Basti pensare allo schema ripetitivo della vita del protagonista, Mr Arnold Nettle, l’impiegato dell’ufficio postale che ogni mattina si reca a piedi al lavoro percorrendo la stessa strada, ogni settimana torna a visitare gli zii e più volte nel corso dei mesi torna a riflettere sul primo incontro con Olivia, la giovane donna della quale timidamente si innamora. E, ogni volta, si rafforza nel lettore la sensazione di paralisi che inchioda Nettle a una non-vita.
Anche l’ambientazione risente della volontà autoriale di insistere su elementi e temi ricorrenti, perché i paesaggi sono costruiti attorno alle sfumature dei bianchi e dei neri al punto da apparire quasi vuoti di colore; uno sfondo, insomma, sul quale innestare guizzi altamente simbolici, come l’arancio del vestito donato a Pauline o il rosso delle albe che illudono i personaggi sulla possibilità di un nuovo inizio. Per il traduttore, l’apparente monocromia del paesaggio rappresenta una delle sfide principali lanciate da un testo solo apparentemente semplice: è un lavoro linguistico che si gioca tutto sulle sfumature e sulla coerenza lessicale, in modo da restituire al lettore la tessitura serrata dell’originale. Soprattutto quando entra in scena Olivia, che riflette la gamma colorista degli scenari sin dal suo primo apparire, vestita di un abito di lana bianco che spicca tra i rami scuri degli alberi e sullo sfondo di una strada quasi nera. Questo perché il colore, e la sua mancanza, ha la funzione fondamentale di simboleggiare l’ibernamento emotivo ed esistenziale di Olivia come di tutti gli altri personaggi, in particolare quelli femminili, che conducono una vita priva di occupazioni, dunque di scopo. Questo senso di ripetitività e ciclicità pervade l’intero testo sebbene abbracci un periodo di pochi mesi, dalla fine dell’autunno all’arrivo della primavera, dall’alba di un nuovo giorno al tramonto.
È un’umanità ‘bloccata’ quella di Edwards, come rinchiusa nella gabbia delle proprie frustrazioni e mancanze personali e dunque incapace di slanci verso i propri simili. Incapace di stringere relazioni vere, e di rompere l’isolamento al quale, capitolo dopo capitolo, il testo li inchioda. Nettle è solo e isolato da un mondo del quale vorrebbe fare parte, Olivia soffre di paralisi emotiva e depressione anche se cerca di nasconderlo alla famiglia, George si tormenta per mancanza di autostima, Pauline è alla ricerca disperata di affetto e attenzioni. Persino Premiss è un uomo in crisi, a dispetto dell’apparente baldanza, perché soffre di insonnia e ha ansie notturne di solitudine. Tutti sembrano vivere nell’attesa che accada qualcosa e incarnano variazioni sottili di uno stesso senso di disagio psicologico e emotivo che finisce per rallentare sempre più il ritmo del romanzo, in particolare nel secondo e terzo capitolo, entrambi dominati dalla malattia di Nettle e dalla ripetizione di termini come ‘stanco’, ‘depresso’ e dei loro derivati. Di nuovo, al traduttore spetta il compito di mantenere evidente la coerenza tematica attraverso quella lessicale.
Fino a che il testo non si chiude nello stesso modo in cui era cominciato, come una sonata che si apra e si chiuda sulla stessa tonalità: la speranza suscitata in Nettle dall’inizio del soggiorno in un ambiente e in un clima nuovi e quella che ancora lo sostiene (o lo illude?) nel finale, per quanto la sensazione generale che pervade il lettore alla fine del romanzo sia quella di una vita vissuta solo a metà. Come quella di Edwards, che si suicidò appena trentenne lanciandosi sotto un treno in corsa. Pochi giorni prima, aveva scritto a un’amica: “Non canto più, la mia musica si è fermata”.
Francesca Frigerio