In occasione dell’uscita di Blu, Giorgia Tribuiani racconta la genesi del suo nuovo romanzo.
La prima volta che incontro Blu ho venticinque anni; lei quattro o cinque.
Sono a un compleanno in una villetta romana, la sala è addobbata con festoni e palloncini che ripetono 40, 40, 40. Su un lato della sala c’è il buffet: salatini, panini, pizzette, torte che ripetono 40, 40 con la pasta di zucchero o la panna; sul lato opposto i tavolini dove la gente si siede, ci sediamo, io conosco soltanto il festeggiato e osservo i bambini che corrono al centro della sala, si inseguono, accanto a me i genitori li guardano.
“Ormai la chiamiamo tutti Blu”, dice una donna indicando una bimba che fa girotondi.
“Blu?”, domanda una delle persone al tavolo.
La donna continua a guardare la bambina, il girotondo è più veloce. “Rideva sempre quando suo fratello diceva ‘blu’, quando nominava il colore blu, e allora, per gioco, abbiamo iniziato a chiamarla con quel” – e d’un tratto drizza la schiena, si sporge verso il centro della sala: “Blu! Ehi, Blu, così cadi! Ti sporchi! Vieni subito qui! Blu!”.
La bambina torna dalla madre trascinando i piedi, gli occhi bassi, il capo basso.
Non ho più fame, non ho più voglia di festeggiare i 40, 40, 40 del mio amico. La chiamavano Blu quando rideva, la chiamano Blu anche quando la sgridano, e lei non ride più. Mentre torno a casa mi dico che quel nome è rovinato. Mentre torno a casa penso che (anche io dicevo di chiamarmi Rosa quando ero una bambina buona; Giorgia quando ero cattiva) non esiste nome o immagine o ideale che non si possa corrompere nel contatto con la realtà.
Due anni dopo sono a Bologna e sto leggendo due libri: Il male naturale di Giulio Mozzi e un saggio di Oliver Sacks, Musicofilia. Penso che vorrei avere il coraggio di scrivere delle mie ossessioni e delle mie immaginazioni così come ha fatto Giulio, e intanto continuo ad avere davanti agli occhi una delle pazienti di Sacks, quella che, quando sentiva una musica, immaginava se stessa nell’atto di percorrere i lati di un quadrato fino alla fine della canzone. La vedo girare, tornare ossessivamente sulle stesse linee, ed è allora, mentre lei è prigioniera del percorso senza uscita che la sua stessa mente ha creato, che la vedo trasformarsi in Blu.
Non è più una bambina: avrà sedici anni, diciassette, e non riesce a uscire dal percorso perché sa che se lo facesse succederebbe qualcosa di terribile; perché adesso c’è il rituale obbligato, il gesto che ritorna e ricorre; c’è il disturbo ossessivo-compulsivo.
Il disturbo ossessivo-compulsivo: quello che ho conosciuto da vicino e non ho mai sentito rappresentato nei libri e nei film (con l’unica eccezione di The Aviator): non ho mai sopportato che venisse ridotto alla buffa mania di lavare le mani dieci volte al giorno, di mettere in ordine le scarpe, di compiere piccoli simpatici tic. Il disturbo ossessivo-compulsivo, ho sempre pensato, non è questo: è la sopraffazione della mente da parte delle immaginazioni, è la paura che possano concretizzarsi, è la consapevolezza terribile di non avere alcun controllo sul reale, nessun modo per difendere la purezza, la bellezza, le relazioni, qualsiasi atto d’amore.
Ho bisogno di scrivere del disturbo ossessivo-compulsivo – questo realizzo – e Blu mi aiuterà: racconteremo l’ossessione, il desiderio di conservare la purezza che la realtà continuamente corrompe; sarà il nostro male naturale.
Decido di parlarne con Giulio, ci incontriamo a Padova: iniziamo a chiacchierare di Musicofilia e di musica, ma dopo pochi minuti stiamo discorrendo di performance art, una forma artistica in cui tutto è azione e ogni cosa diventa rituale: come nel disturbo ossessivo-compulsivo. Sono affascinata; mi chiedo: può l’ossessione diventare un’opera d’arte?
Qualche settimana dopo faccio le valigie per Venezia in occasione della Venice International Performance Art Week. Conosco artisti, li intervisto, ma soprattutto assisto a un’esibizione di Kyrahm – Ecce (H)omo, Guerrieri, performance intensissima – che mi dà la chiara misura di quanto un atto performativo possa essere magnetico e impattante.
Nei giorni che seguono alla mostra continuo a contattare artisti tramite Facebook, a intervistarli sulla quotidianità, sui motivi che li spingono a performare, sulla possibilità data dalla loro arte di trasformare il dolore e l’ossessione in bellezza. Mi rispondono in tanti: Flavio Sciolè, Tiziana Cera Rosco, Giulia Mattera, Francesca Leoni, Franko B.
Nel frattempo è iniziato il momento più bello della gestazione di un libro: pezzi di realtà si stanno staccando dalla mia vita per diventare finzione, si trasfigurano, capitombolano nel romanzo – o in quell’idea informe che sta diventando il romanzo.
Blu “ruba” i capelli (s)tinti a una ragazzina che vedo passeggiare in via Ugo Bassi, sale insieme al fidanzato (dunque hai un fidanzato, Blu?) sull’autobus che mi riporta dal centro di Bologna a Borgo Panigale, disegna i volti che vedo durante le mie giornate, partecipa ai festival ai quali io assisto, incontra una ragazza giapponese con un caschetto biondo e un taglio sulla guancia che io stessa incontro durante un piccolo evento bolognese (la chiamerò Yuriko, “bambina dalle cento perfezioni”, in contrasto con quella perfezione che dolorosamente manca a Blu), e poi si impossessa dei miei ricordi, delle mie paure, dei miei sensi di colpa, dei momenti che ho vissuto: Blu ancora non esiste sulla pagina, ma nella mia mente è viva più che mai.
Ogni giorno, più volte al giorno, mi perdo e continuo a seguire le sue azioni, a vederla aprire e chiudere gli occhi compulsivamente per scacciare un’ossessione, a cercare rifugio nell’arte. Un pomeriggio, leggendo Infinity Net, biografia di Yayoi Kusama, devo distogliere lo sguardo dal testo perché Blu si è infilata tra le parole e, proprio come Kusama, ha iniziato a disegnare fuori dal foglio, il foglio non basta più, non riesce più a direzionare l’ossessione, che deve lasciare lo spazio sulla tela e diventare corpo, materia. Devo distogliere lo sguardo perché mi rendo conto di quanto lei sia concreta e di come stia parlando di me, di come anche lei stia direzionando la mia ossessione, facendole occupare uno spazio e donandole una delle possibili forme.
Ma può, dunque può, l’ossessione, diventare un’opera d’arte?
Hanno scritto che “Blu parla di performance ma è esso stesso performance”.
In questo libro sono contenuti il mio desiderio di perfezione e di purezza, l’incapacità di difenderle, l’ossessione di difenderle, e poi i faccia a faccia con la colpa e il senso di colpa, e la preghiera rivolta all’arte affinché salvi, lenisca almeno un po’ – affinché, quantomeno, possa dare una forma a tutto questo, rendere tutto questo contemplabile, guardabile.
Blu ha in esergo una frase di Antonin Artaud, “credo che da me venne fuori un essere, un giorno, che pretese d’essere guardato”. Blu non è un romanzo autobiografico, ma ugualmente, per me, è espressione della speranza umanissima che in molti abbiamo, e che io sicuramente ho, di poterci concedere il diritto, qualche volta, di mostrarci con tutti i nostri difetti, le nostre macchie, i nostri errori, la nostra tremante e fragilissima umanità, e che qualcuno abbia nonostante tutto il coraggio di amarci.
Giorgia Tribuiani