In occasione dell’uscita di Storia della nostra scomparsa di Jing-Jing Lee, pubblichiamo una riflessione di Alessia Ragno sul romanzo.
Nel Febbraio del 1942, in piena Guerra del Pacifico, il Giappone conquista l’isola di Singapore strappandola a inglesi e cinesi. Le cambia il nome, che diventa Shōnan-tō, la bandiera, il fuso orario e persino la moneta. A partire dal mese di Marzo dello stesso anno le scuole locali perdono tutti i docenti cinesi, epurati dall’invasore che ha come priorità quella di cancellare la cultura del luogo. Nel frattempo i kampong, i villaggi tipici della zona, vengono razziati di continuo, dati alle fiamme, rapinati di tutto il sostentamento e gli abitanti uccisi se sospettati di appoggiare il governo cinese impegnato nell’altro fronte della guerra, quello degli Alleati. In questo quadro c’è anche Wang Di, la protagonista di Storia della nostra scomparsa di Jing-Jing Lee. Wang Di in cinese significa “speranza/desiderio di un fratello”, perché quando era nata, di notte, dopo molte ore di travaglio, suo padre pensava già al prossimo figlio, l’agognato maschio. Ma è anche possibile che Wang Di sia stata “trovata in un sacchetto della spazzatura” dalla madre mentre andava al mercato; oppure, ancora, abbandonata in uno stagno dal padre che avrebbe voluto buttarla via, ma poi ripresa perché non ne voleva sapere di lasciar andare la sua famiglia. Tre possibilità che l’autrice raccoglie nell’incipit del romanzo dando loro la stessa importanza, la stessa probabilità, perché tutte parte integrante plausibile di quella che poi si scoprirà essere la storia di Wang Di. La incontriamo ragazzina in attesa di un buon matrimonio combinato dalla zia Tin, ma anche vedova e vecchia moltissimi anni dopo, senza sapere ancora quello che le è accaduto nel mezzo. Da un’altra parte, e in un altro tempo, c’è Kevin Lim Wei Han, ragazzino occhialuto e ingenuo alla ricerca del passato della sua famiglia con in mano il suo registratore e le rivelazioni della nonna. Il romanzo è un puzzle di queste vite romanzate, certo, ma la cui matrice è puramente storica, nonché liberamente ispirata alla famiglia della scrittrice. È una storia di sopravvivenza alla memoria che tormenta e ad un passato che si fatica ancora a riconoscere, quello delle donne di conforto negli anni dell’occupazione giapponese. Un totale di quasi 300.000 donne, provenienti dai diversi territori occupati dall’Impero durante la guerra (Cina, Thailandia, Corea, Singapore, Malesia, ecc.), furono rapite con l’inganno e rinchiuse nei bordelli destinati ai soldati dell’esercito giapponese. Prostitute adolescenti controllate a vista dai loro carcerieri ed esposte a violenze, malattie, denutrizione e ogni sorta di privazione. Il governo giapponese, negli anni, ha sostenuto versioni differenti: erano volontarie, non è mai successo nulla, non sono mai esistite, erano solo 20.000 in tutto, ma a partire dagli anni ’90 si sono moltiplicate le testimonianze di donne mai ritornate alle loro famiglie perché costrette a diventare schiave. Jing-Jing Lee, allora, descrive nello stesso romanzo la devastazione della guerra e l’orrore destinato alle donne di conforto, ma trova spazio anche per le difficoltà di un adolescente dei giorni nostri e il racconto desolante della solitudine della vecchiaia. Storia e finzione convivono placide nella descrizione chirurgica di questi dolori il cui unico obiettivo è quello di portare a galla, nuovamente, la storia che non abbiamo avuto la cura di vedere e conoscere.
L’adolescente Wang Di viene portata via dopo un rastrellamento, i sook ching dell’esercito giapponese, durante il quale i genitori cercano invano di nasconderla e proteggerla, ma il suo destino è già stato deciso. Con una alternanza regolare tra presente e passato, il lettore viene a conoscenza di ciò che Wang Di è stata, delle botte e della vergogna che lei mai riuscirà a raccontare se non al marito, il Vecchio come lo chiama lei, e delle ripercussioni che questo ha avuto per tutta la sua vita. Il suo tormento non avrà mai fine. Wang Di è prigioniera adolescente prima e “la nonnetta che raccoglie i cartoni” poi, in entrambi i casi una emarginata senza famiglia, ostaggio di un trauma impossibile da rielaborare. La “nonnetta” affronta la vecchiaia con la stessa vergogna, come se il passato non fosse mai tale, abbandonata a sé stessa e in una nuova casa dopo la morte del Vecchio.
Non era così che aveva immaginato la sua vecchiaia: da sola, in un appartamento bianco e spoglio, troppo silenzioso, senza le cose che aveva avuto intorno per buona parte della sua vita.
E ancora:
Per sopportare il silenzio che l’accoglieva ogni giorno, riempiva la cucina di suoni; il debole lamento del bollitore, lo sciabordio dell’acqua calda che si rovesciava nella ciotola di latta, il tintinnio del cucchiaino quando lo girava dentro alla tazzina dopo averci messo una puntina di zucchero. Ormai si era abituata a quei suoni.
Questi suoni e gli oggetti che accumula nella nuova casa spoglia sono il magro conforto, lo stesso che aveva cercato, decenni prima, nella cella del bordello di cui era prigioniera. Ma allora esiste davvero questo conforto nel più indicibile degli orrori? Wang Di lo trova in queste cianfrusaglie da stipare negli angoli della stanza, perché rassicurano e riempiono il vuoto dei luoghi in cui si trova. Jing-Jing Lee imbastisce, così, su questo gesto compulsivo un sottile gioco di rimandi, la tecnica narrativa scelta per comporre il personaggio e chiudere il cerchio di passato e presente nelle ultime pagine. La Wang Di di allora è anche quella presente, i traumi nevi perenni ad attutire la sua vita quotidiana fino a quando si intreccia con quella di Kevin, il ragazzino che si ritrova per caso a sbrogliare le esistenze di tutti e a dare loro il giusto compimento. Non c’è una vera e propria lezione da imparare col dolore infinito di Wang Di, sempre privato e nascosto. Non ci sono nemmeno riscatto né risarcimento per il suo passato, le latitanti ammissioni del governo giapponese sul tema delle donne di conforto ne sono una solida testimonianza. Tuttavia questo eco letterario di fame e bombe, violenze e percosse che è Storia della nostra scomparsa riesce a dimostrare che sì, un riscatto fugace e tardivo potrebbe valere ugualmente, perché in tempi di dolore anche questo diventa quasi sufficiente.
Alessia Ragno