Storia di padri e di mondi lontanissimi

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Giorgia Tribuiani

Di solito capisco di dover raccontare una storia quando un’immagine diventa un’ossessione: se una scena, o l’ingresso di un personaggio, si presenta una sera ai miei occhi e il giorno dopo è ancora lì, e così quello dopo ancora e per tutta la settimana, e magari anche il mese successivo, allora significa che dietro quella scena o dietro quel personaggio si nasconde una storia, e che vale la pena di ascoltare.

So che accade lo stesso a molti scrittori: alcuni, come Antonio Tabucchi, lo hanno raccontato anche nelle introduzioni o nelle note finali dei loro romanzi.

«Quella sera di settembre – scrive Tabucchi a proposito di Pereira – compresi vagamente che un’anima che vagava nello spazio dell’etere aveva bisogno di me per raccontarsi, per descrivere un tormento, una scelta, una vita. In quel privilegiato spazio che precede il momento di prendere sonno e che per me è lo spazio più idoneo per ricevere le visite dei miei personaggi, gli dissi che tornasse ancora, che si confidasse con me, che mi raccontasse la sua storia. Lui tornò e io gli trovai subito un nome».

Cominciai a scrivere Padri nove anni fa, quando conoscevo poco più dell’immagine iniziale: un uomo risorge sul pianerottolo di casa nello stesso corpo con cui è morto quarant’anni prima; infila la chiave nella serratura, ma la chiave non gira.

La scena mi era venuta in mente leggendo un testo in cui Tiziano Terzani si poneva (e poneva al lettore) alcune domande sulla resurrezione dei corpi, e ce n’era una in particolare che suonava più o meno così: «Se il corpo risorgesse, avrebbe l’età in cui è stato lasciato al momento della morte?».

La domanda mi aveva suscitato una serie di immaginazioni – come quella di un aldilà composto da padri e madri fisicamente più giovani dei figli, se venuti a mancare a un’età inferiore –, culminante appunto nella scena del pianerottolo.

Nei giorni che seguirono, questa scena si fece via via più vivida dentro di me: come Tabucchi diedi un nome, Diego Valli, al mio personaggio, e guardandolo meglio scoprii che era morto in inverno e risorto in primavera (gli misi quindi indosso una giacca di montone della quale liberarsi in fretta, accaldato) e che si trattava di un postino (gli sistemai in spalla una tracolla con cui trasportare lettere e pacchi).

Buttai quindi giù questa prima scena per fissarla, e mi accorsi subito che dava origine a tanti piccoli tunnel nei quali infilarsi per afferrare altrettanti temi: volevo raccontare il miracolo, il bisogno che ne abbiamo? o piuttosto il tempo che vorremmo tornasse due volte, riportandoci insieme le persone e le cose che abbiamo perduto? oppure, ancora, questa storia voleva parlarmi della solitudine di un uomo che non vive più nel proprio tempo?

Per nove anni – e quattro riscritture da cima a fondo – cercai di carpire cosa volesse comunicarmi quell’immagine (la scrittura, per me, è da sempre un modo di “guardare”, o di capire, dando una forma alle cose, ciò che non riesco a capire altrimenti), quale storia volessi raccontare davvero tuffando Diego nella complicata vita famigliare di suo figlio Oscar, fatta di un matrimonio quasi in pezzi e di un rapporto padre-figlia fondato sulla mancanza di ascolto, e un primo punto di svolta arrivò dopo una lunga chiacchierata con Giulio Mozzi.

Mentre passeggiavamo per le vie di Padova, e io mi sorprendevo alle dieci del mattino a vedere le persone fare colazione con lo Spritz, lui mi suggerì, una volta rientrata a Bologna, di fare due cose: rileggere I fratelli Karamazov e rivedere Mary Poppins.

La seconda parte del consiglio, lo ammetto, mi strappò un sorriso, eppure, se rileggere i Karamazov mi permise di concentrarmi sul senso del sacro dei personaggi, sull’accettazione, sulla colpa (che è sempre stato uno dei miei temi principali), fu proprio Mary Poppins a offrirmi gli strumenti per comprendere davvero la mia storia.

Al centro dei romanzi di Pamela Lyndon Travers, infatti, così come al centro del film, non c’era l’elemento (o meglio il personaggio) fantastico, non c’era Mary Poppins, ma la famiglia Banks. Lei attirava certo l’attenzione con i propri prodigi, con la capacità di entrare nei quadri, ma quella storia non era la sua storia, almeno quanto la storia di Diego, arrivato in un momento di crisi della famiglia Valli, non era la storia di Diego.

Il fantastico, come accade dai tempi di Kafka e del racconto La metamorfosi, non sempre rappresenta il fulcro della storia, ma più spesso di quest’ultima si fa motore, catalizzatore: il focus della vicenda di Gregor Samsa non è la trasformazione in insetto (che del resto non suscita lo stupore che altrimenti meriterebbe), ma ciò che, da quel momento in poi, accade alle relazioni che legano i componenti della sua famiglia. Lo stesso finale del racconto riguarda non Gregor ma la sua famiglia.

Da Travers mi spostai allora su Kafka nella speranza di trovare l’ultima chiave, quella che forse – a differenza delle chiavi di Diego – avrebbe girato, e di fatto la trovai nei mesi del lockdown, rileggendo la Lettera al padre.

Si nascondeva nella frase:

«Poi c’era un secondo mondo, lontanissimo dal mio, nel quale vivevi tu.»

La caratteristica principale del rapporto padre-figlia presente nel mio romanzo, come dicevo, era la mancanza di ascolto, e la mancanza di ascolto era in fondo anche il motivo che aveva quasi ridotto in pezzi il matrimonio di Oscar. La presenza di un corpo estraneo, del fantastico, di un uomo tornato dall’aldilà, era l’invito ultimo fatto a quella famiglia di provare a parlarsi. Di più: era l’invito a credersi, ad affidarsi agli altri; una chiamata a venire incontro alle idealizzazioni di Oscar, ai dubbi di sua moglie Clara, al bisogno disperato di condivisione di sua figlia Gaia.

Sarebbero riusciti, i membri di questa complicata famiglia, a rispondere a questa chiamata?

Inoltre questo “tu” così colloquiale contenuto nella frase di Kafka, quest’affermazione sofferente, questa metafora dei pianeti mi ricordò Solaris, uno dei miei romanzi preferiti, e quel dolente desiderio di comunicare che è destinato a essere costantemente e disperatamente spezzato dalle diverse esperienze che abbiamo, e che sempre ci faranno sentire incompresi da chi non le ha condivise.

Se in Blu e in Guasti avevo raccontato di una incomunicabilità in qualche modo “colpevole” (causata, per esempio, dal non detto), capii che stavolta volevo raccontare un’incomunicabilità fisiologica, quella di mondi diversi, e di distanze che possiamo colmare – forse – solo nel momento in cui smettiamo di voler analizzare e processare e capire tutto, per accettare e perdonare e amare.

 

Giorgia Tribuiani

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