Tradurre «Amatissimi» di Cara Wall

•   Il blog di Fazi Editore - Parola ai traduttori
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Cara Wall

In occasione dell’uscita di Amatissimi, Silvia Castoldi racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Cara Wall.

 

Non è la prima volta che traduco un romanzo che parla di ministri del culto di una chiesa evangelica (con tutte le differenze rispetto al cattolicesimo che questo comporta), e che tematizza la fede religiosa facendola scontrare con i profondi cambiamenti della società, ma soprattutto con gli abissi più insondabili della condizione umana: la malattia, il dolore, la morte e il senso di colpa e di impotenza che ci assale inevitabile nei momenti più tragici della nostra vita.

Eppure, nel leggere prima e nel tradurre poi, mi sembrava di camminare in punta di piedi un territorio insidioso, in cui si ha paura non dico di spostare ma perfino di sfiorare anche il più piccolo oggetto, di fare la figura del proverbiale elefante in una cristalleria. Le parole che i personaggi si scambiano tra loro, e quelle che usa l’autrice per spalancarci il loro mondo interiore, sono come bicchieri di cristallo che basta un niente per mandare in frantumi, come lastre di ghiaccio lucente e levigato capaci di spezzarsi sotto il peso di chi vi si arrischia senza la necessaria cautela.

E d’altra parte arrischiarsi bisogna: toccare, spostare gli oggetti linguistici di cui è fatto un romanzo è necessario per poterlo traghettare nella propria lingua madre. Tradurre diventa allora quasi un esercizio di equilibrismo, un numero da giocoliere, in cui si fanno roteare in aria parole, frasi, segni di interpunzione, per guardarli nel loro insieme e individuare la configurazione più adatta, attenti a non lasciarne schiantare nessuno. “Scrivere e riscrivere, intrecciare le parole come maglie di ottone in una catena”, finché tutti gli elementi della narrazione, della lingua e dello stile si cristallizzano in una nuova combinazione che al lettore deve apparire priva di punti di giunzione, altrettanto limpida e tersa dell’originale.

E tutto questo senza mai dimenticare che “certe esperienze non si possono tradurre in parole, ma solo misurare o spiegare grazie ai varchi lasciati tra le parole stesse”. Parole affilate come bisturi, che sezionano l’anima propria e altrui, come si vede ogni volta che i personaggi si trovano ad affrontare un momento di verità: quando Charles sfida l’incomprensione del padre nei riguardi della sua vocazione religiosa; quando Lily lascia trapelare la maestosa e implacabile vastità del suo dolore per la perdita dei genitori, e della sua conseguente mancanza di fede; quando Nan è costretta invece a misurarsi con i limiti della propria fede, che aveva sempre data per scontata ma che forse non è altro che la tranquilla aspettativa di un bambino che ha sempre ottenuto dai genitori tutto ciò che voleva senza neanche bisogno di chiederlo; quando James si trova a dover spiegare al padre di Nan, un ministro del culto, per quale motivo dovrebbe essere felice di vedere la figlia sposata a un uomo che vuole dedicarsi agli studi religiosi senza nemmeno essere convinto di avere davvero fede in Dio; quando Lily affronta Charles per mostrargli l’insensatezza del suo isolarsi da Dio, del suo volersi punire per aver dubitato di Lui.

Una delle tante cose che questo romanzo dice, e che dice molto bene, è che non esiste abisso, per quanto ampio e profondo, di disperazione o di estraneità, che non sia possibile varcare, “curvando e plasmando, piegando e legando”, fino a creare “vincoli indissolubili”.

La speranza di ogni traduttore è quella di riuscire a piegare e plasmare la prosa fino a varcare l’abisso tra le lingue, fino a creare “le giunture, il sostegno, l’equilibrio” che facciano sentire il lettore a casa.

 

Silvia Castoldi

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