Tradurre «Cara Rose Gold» di Stephanie Wrobel

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Wrobel

In occasione dell’uscita di Cara Rose Gold, Donatella Rizzati racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo d’esordio di Stephanie Wrobel.

 

La famiglia rappresenta, da sempre, un terreno estremamente fertile per la narrativa, la varietà e, spesso, l’ambiguità delle relazioni che la compongono e la tengono insieme – o, nei casi estremi, la distruggono – offrono infiniti spunti per raccontarne ogni aspetto, dal più solare e amorevole, al più oscuro e violento. Con il suo romanzo d’esordio Stephanie Wrobel ha scelto di affrontare il legame più vincolante, complesso, e profondo che esista: quello che unisce – con esiti piuttosto variegati – una madre alla propria figlia e lo fa attraverso una storia in cui non tutto ciò che appare è realmente come si mostra e non tutto ciò che viene detto è davvero ciò che accade. La narrazione del rapporto fra Patty, la madre, e Rose Gold, la figlia, è affidata alle voci di entrambe le protagoniste che si alternano e si intrecciano in un susseguirsi di cambi di ruolo sempre più serrati che, a poco a poco, svelano risvolti, retroscena, segreti e meschinità che, con un ritmo incalzante, accompagnano il lettore fino all’ultima pagina.

In uno scenario scarno e privo di qualsivoglia bellezza, dove un senso di morte perenne – non solo fisica, ma spirituale e intellettuale – aleggia su ogni cosa fino a impregnare di sé financo il nome dell’immaginaria cittadina di Deadwick nella quale vivono le due donne, prende le mosse la storia dell’incontro fra una madre violenta, appena uscita dal carcere, e una figlia abusata. Sebbene entrambe siano decise a tentare un nuovo inizio, la diffidenza reciproca è molta e si manifesta nei loro gesti, negli sguardi, ma soprattutto nelle loro voci. Aspre, rabbiose, cariche di sospetto, ma anche tenere, disperatamente desiderose di trovare del buono nella donna in cui ognuna sembra rispecchiarsi, pur respingendola.

L’elemento di questo romanzo che ho trovato più affascinante è stato, senza dubbio, il gioco delle voci di queste due donne. Con una scrittura essenziale, lineare e cruda, l’autrice ha intessuto una trama il cui ordito sono, appunto, le due voci che raccontano e si raccontano, si accusano, si smentiscono, si perdonano, si amano e si odiano in un gioco di intrecci e scambi sempre più serrati e rapidi fino alla conclusione. Senza fare sconti, né scivolare nel patetico a basso costo, il romanzo mette in scena una vicenda nella quale i ruoli di vittima e carnefice sono sfumati, fondono i propri confini per confondersi e confondere il lettore che si trova immerso in un racconto disseminato di sospetti, paure, falsi indizi e menzogne  e dove il mutare delle intonazioni e delle parole, via via che i rancori vengono alla luce e il passato si chiarisce, fa emergere  un rapporto madre-figlia che trascende la definizione di morboso o malato. Tradurre le voci di questo romanzo, seguirne l’evoluzione, cercare di cogliere e rendere le sfumature del cambiamento è stata la parte più difficile del lavoro, ma anche la più interessante, data la complessità delle due protagoniste.

 Se vittime o carnefici, questo lo scoprirà il lettore.

 

Donatella Rizzati

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