In occasione dell’uscita di Due settimane in settembre, la traduttrice Silvia Castoldi racconta il romanzo di R.C. Sherriff.
“Un giorno di punto in bianco mi venne un’idea per un romanzo.” Così scrive l’autore nella sua autobiografia, parlando della genesi di Due settimane in settembre. Dopo aver raggiunto il successo con il dramma Il grande viaggio, e dopo il fallimento di altri due lavori teatrali successivi, Sherriff diventa romanziere quasi per caso: decide che non gli conviene più “scrivere con l’idea di pubblicare”, e che anche se riuscirà a finire il romanzo non lo spedirà mai a un editore. “Volevo scrivere per il puro piacere di farlo”. “Forse non ne sarebbe nato un libro che qualcuno poteva aver voglia di leggere, però almeno avrei tenuto impegnata la penna e riempito le serate vuote”.
Sherriff decide di “scrivere di persone semplici, comuni, che facevano cose normali” e di “scrivere la storia di quelle persone con le stesse parole semplici che avrebbero usato loro per descrivere i propri sentimenti e avventure”.
Ma si accorge subito che tale semplicità non è affatto semplice da raggiungere: “Era difficile liberarsi dell’abitudine di andare in cerca di parole solenni e modi arzigogolati per dire le cose”. Senza contare che “anche quel nuovo stile aveva i suoi trabocchetti. Se si scrive in maniera troppo semplice si rischiano cadute di tono, e la scrittura acquista una specie di pretenziosità al contrario”. Ci vuole tempo “per dare equilibrio alla storia”.
Ed ecco dunque la difficoltà per il traduttore nell’accostarsi a questo romanzo: da un lato la necessità di adottare lo stesso approccio stilistico minimale, di parlare sottovoce; di togliersi il colletto rigido da città, come fanno i protagonisti una volta arrivati al mare, sfuggendo alla trappola del bello scrivere, che nella lingua italiana è particolarmente presente e insidiosa. Dall’altro non dimenticare mai che la semplicità di questa scrittura è solo apparente, perché è il frutto di uno sforzo stilistico consapevole, che il traduttore deve compiere a sua volta per trovare un equilibrio analogo nella lingua d’arrivo.
E analogamente alla scrittura, anche la vicenda narrata si presenta a prima vista come una storia molto semplice: quella degli Stevens, una famiglia della piccola borghesia inglese che vive in un quartiere periferico di Londra e ogni anno in settembre trascorre due settimane di villeggiatura nella località balneare di Bognor, presso la pensione Vistamare di proprietà della signora Huggett. Il romanzo segue nei minimi dettagli l’andamento della vacanza, dalla minuziosa descrizione dei preparativi per la partenza fino al congedo finale dalla signora Huggett. Persone comuni, che vivono di piccoli pensieri e piaceri; non c’è nessun colpo di scena, nessun evento eclatante a turbare una quotidianità pacata e intrisa di normalità.
Ma ancora una volta si tratta di una semplicità solo apparente: sotto la superficie cristallina dei gesti e delle parole dei protagonisti si nascondono le profondità con cui ogni essere umano è costretto prima o poi a misurarsi. E così il signor Stevens traccia il bilancio della sua vita, si sofferma a riflettere sui propri fallimenti e ribadisce a se stesso che “nessun uomo può spingersi oltre i limiti estremi delle proprie opportunità”. Mary, la ventenne figlia maggiore, trova l’amore e poi lo perde, mentre Dick, il secondogenito, si sforza di escogitare una via d’uscita da un lavoro appena trovato che riempie il padre di orgoglio ma per lui rappresenta la tomba di tutte le sue aspirazioni. E il finale, in cui si scopre che la famiglia vive per un anno intero contando i giorni che la separano da quelle due settimane che passano in un lampo, si carica a sua volta di una complessa multiformità di possibili interpretazioni: la vacanza è un album dei ricordi a cui rivolgersi per ritrovare la serenità nei momenti difficili del lavoro e della vita quotidiana? Oppure, con la sua inevitabile brevità, di cui il signor Stevens in particolare è consapevole fin dall’arrivo, rappresenta l’esemplificazione di un pessimismo cosmico di sapore leopardiano? La tristezza del passato che sfugge irrimediabilmente, e che si riflette negli oggetti consunti e obsoleti di cui sono circondati e si circondano i protagonisti nella sempre più scalcagnata pensione della signora Huggett, è un richiamo alla caducità e all’infinita vanità del tutto? Oppure alla decadenza inesorabile di una piccola borghesia da sempre e per sempre fuori dai giochi (come il signor Stevens, al quale è stata negata una promozione che sentiva di aver meritato dopo anni di lavoro, dedizione e sacrifici), costretta a fare i conti al centesimo, a tracciare le tacche sulla bottiglia di Porto per assicurarsi di farla durare fino a fine vacanza; ad aggrapparsi agli ultimi rimasugli di un decoro esteriore come unico modo per conservare la propria dignità di fronte a se stessi e al mondo?
Forse tutte queste possibili chiavi di lettura confluiscono nell’immagine, potente e struggente, con cui il romanzo si chiude. “Da lontano il polsino di pizzo bianco della signora Huggett sembrava un fazzoletto agitato in segno di saluto. Non si vedeva più l’occhio malato, e lei appariva alta e nobile, ferma davanti al cancello nel suo vestito di seta nera”.
Silvia Castoldi