La traduttrice Silvia Castoldi presenta I gentiluomini di fortuna, il romanzo di Nadifa Mohamed meritatamente incluso nella rosa dei finalisti al Booker Prize.
Cosa resta da fare quando un uomo viene giustiziato per un delitto che non ha commesso? Niente, a parte raccontare la sua storia.
Ambientato nel 1952 a Tiger Bay, multietnico quartiere del porto di Cardiff, I gentiluomini di fortuna racconta in forma romanzata la vera storia di Mahmood Mattan, un marinaio somalo accusato e condannato ingiustamente a morte per l’omicidio di Lily Volpert, una negoziante ebrea.
Mahmood ha suscitato molti rancori sposando una donna gallese e ha un passato controverso da piccolo delinquente che fa di lui il capro espiatorio ideale. Grazie a prove contraffatte e false testimonianze diventa così l’ultimo uomo a essere impiccato nella prigione di Cardiff, al termine di un processo indiziario in cui la testimone oculare, la nipote della vittima, nega che sia lui l’uomo da lei intravisto sulla porta del negozio della zia prima dell’assassinio.
Attraverso lo sguardo da outsider del protagonista si svela con lentezza, ma anche con prepotenza, il razzismo che pervade la società britannica dell’epoca, nelle sue manifestazioni plateali quanto in quelle più subdole.
«Ti impiccheranno, che tu sia colpevole o no», dice a Mahmood l’ispettore Powell, incaricato delle indagini: una minaccia che esprime tutta l’arroganza di un uomo abituato a esercitare il suo arbitrario potere sui più deboli.
Mahmood è uno dei tanti “uomini di fortuna”, avventurieri attirati dall’Africa e dalle altre colonie verso l’Europa, e poi costretti a scontrarsi con le difficoltà di inserirsi a pieno titolo nella società. Quando si imbarca per la prima volta su una nave mercantile scopre una nuova esistenza, in cui non è più così necessario lavorare per vivere, ma basta tentare la sorte per farsi ricco con la fortuna di una notte.
Mahmood diventa un uomo in balia della fortuna, un nomade, un guerriero, un ribelle, un avventuriero, sprecato in una nazione di ipocriti; questa sua scelta di vita lo costringe a pagare un prezzo altissimo, sacrificandolo al meschino desiderio di rimettere i neri al loro posto.
Grazie alle parole di Nadifa Mohamed ci si svela a poco a poco un protagonista mutevole, pieno di contraddizioni, di grandezze e meschinità, che di volta in volta si colloca come antieroe scapestrato, audace vagabondo, ladruncolo, sognatore carismatico, orgoglioso giocatore d’azzardo, padre affettuoso, agitatore anti-coloniale e portavoce della verità al cospetto dell’arroganza del potere.
E la complessità multiforme della personalità di Mahmood trova un contraltare e un rispecchiamento nella complessità linguistica della narrazione. Proprio come le navi su cui si è imbarcato Mahmood come fuochista, Tiger Bay è un calderone in cui si mescolano, convivono, si fondono e si raggrumano hindi, swahili, inglese, patois giamaicano, arabo e somalo.
E quindi ecco che l’inglese stesso si veste di tanti panni diversi, si gonfia, lievita, dilata i propri confini per accogliere dentro di sé una pluralità di lingue, per prestare la voce ai nativi del Gambia, della Giamaica e della Somalia, che lo usano, ciascuno a suo modo, come lingua franca per capire e farsi capire anche da chi non parla la loro; ecco che si contamina e viola le proprie regole, o meglio si dota per bocca dei vari parlanti di nuove regole. Oppure riacquista la propria “limpidezza” quando si tratta invece di vestirsi dei panni del somalo, per tradurre nella voce narrante l’interiorità di Mahmood, o per prestare la voce ai dialoghi, sempre in somalo, tra lui e il suo amico Berlin. E quindi assistiamo al paradosso per cui non c’è un inglese solo, ma tanti inglesi diversi, e gli stessi personaggi, soprattutto il protagonista, ne parlano più di uno, a seconda delle circostanze (quello che Mattan parla con la moglie gallese è diverso da quello che parla con la polizia e le autorità); una lussureggiante sovrabbondanza, una ricchezza che forma un coro armonioso eppure rischia a ogni passo di trasformarsi in una Babele cacofonica.
È quello che accade al protagonista ogni volta che si trova ad avere a che fare con l’autorità costituita: «Balbetta, il suo inglese va in frantumi, parole in somalo, arabo, hindi, swahili gli si raggrumano sulla lingua insieme all’inglese». E questa frammentazione raggiunge il suo culmine nell’aula del tribunale: «Ma perché le parole sembrano creargli intorno così tanta violenza?», si chiede. «Cosa succede nel tragitto dalla mente alla bocca, che lo tradisce fino a quel punto?». E ancora: «Un attimo prima riesce ad afferrare tutto, ma poi quelli cambiano frequenza, come una radio che funziona male, e si mettono a parlare come facevano all’università, lasciandogli solo qualche parola isolata a cui aggrapparsi. Pensano che un uomo sia stupido solo perché parla con un accento straniero, ma lui vorrebbe gridare: “Ho imparato da solo cinque lingue, sono capace di dire ‘Vaffanculo’ in hindi e ‘Amami’ in swahili, datemi una possibilità, e parlate chiaro”».
Forse si può considerare gran parte del romanzo come una lunga traduzione dal somalo, una traduzione condotta da Nadifa Mohamed secondo coscienza, che ha lo scopo di dare finalmente una voce a chi non ha avuto voce.
Il che richiama alla memoria quello che per un traduttore letterario risulta a volte meno evidente nella quotidianità del suo lavoro rispetto ad altre situazioni, ma che rimane vero, sempre e comunque: tradurre è un’assunzione di responsabilità, e come tale ha invariabilmente un significato etico e politico. Non esiste una neutralità nelle parole. Intorbidare le acque, frapporre barriere linguistiche che rendono opaca la comunicazione, è un sopruso. La lingua è un’arma. Sta a tutti noi fare in modo che non sia un’arma di oppressione, ma di liberazione.
Poco per volta Mahmood, il quale prima confidava in Allah, nella sua innocenza e nel trionfo della verità, si rende conto di tutte le illusioni che si è creato nei riguardi della terra in cui è andato a vivere e dei suoi abitanti: ha creduto a una promessa formale di uguaglianza che si è rivelata in malafede, falsa fin dall’inizio. Mahmood non può contare su niente e su nessuno: nessun testimone, nessun avvocato, nessun giudice, nessun destino lo salveranno o gli faranno ottenere giustizia.
Di fronte al crollo di tutte le sue illusioni, mentre attende l’incerto esito della domanda di grazia, Mahmood è costretto a fare i conti con la propria vita e i propri errori: e poco per volta il personaggio si trasfigura, comincia a emanare un bagliore che è il segno di un’illuminazione interiore, della raggiunta consapevolezza che la vita è fragile, è poca cosa, e al mondo tutto è un miraggio che alla fine si dissolve davanti ai nostri occhi. E mentre si sforza di tracciare un bilancio della propria esistenza Mahmood la immagina come se fosse un film: prima una commedia sonora e a colori, che termina con un lieto fine in cui il protagonista viene scagionato e si allontana tenendo la moglie tra le braccia; poi un tragico film muto in bianco e nero che si conclude con la sua morte.
Nadifa Mohamed è una scrittrice, e non una regista, ma ritengo che in quest’opera sia riuscita a rendere a Mahmood Mattan, sia pure grazie a un medium diverso rispetto a quello da lui immaginato, la testimonianza che meritava.
A me, che ho prestato la mia voce a Mohamed, non resta che confidare di aver fatto altrettanto con la mia traduzione.
Silvia Castoldi