In occasione dell’uscita di Il diacono King Kong, Silvia Castoldi racconta la sua esperienza con la traduzione del nuovo romanzo di James McBride.
Ambientato nelle Cause Houses, un quartiere di case popolari di Brooklyn, negli anni Sessanta del XX secolo, Il diacono King Kong prende il titolo dal suo protagonista, il diacono alcolizzato della Chiesa Battista locale, soprannominato King Kong dal nome del suo liquore preferito e Sportcoat per via delle sue giacche.
La trama si apre dopo che Sportcoat, in preda ai fumi del liquore, ha sparato a Deems, lo spacciatore di droga più temuto del quartiere, ex membro della locale squadra di baseball di cui lo stesso Sportcoat era allenatore.
L’episodio provoca nelle Cause Houses una reazione a catena che coinvolge tutte le bande che si contendono lo spaccio di droga. Killer spietati vengono assoldati per eliminare i rivali e dare la caccia a Sportcoat, ma un poliziotto irlandese si prende a cuore il caso e cerca di trovare il diacono prima di chi lo vuole morto.
Il diacono King Kong è un romanzo sovrabbondante, vertiginoso, affollato di personaggi il cui passato è a sua volta affollato di personaggi, e anche se è Sportcoat il centro della narrazione tutti coloro che compaiono nella vicenda hanno una propria voce.
E le loro voci sono quelle degli ultimi, degli scarti della società, su cui pure l’America ha costruito la sua grandezza: gli strambi, i poveri, i matti, i delinquenti. I latinoamericani, gli italoamericani, i neri fuggiti da un Sud razzista e, almeno nei desideri, ancora schiavista, gli irlandesi discendenti di immigrati spinti dalla fame a varcare l’Oceano. Tutti costretti a misurarsi con un mondo per il quale non sono attrezzati, e non lo saranno mai: troppo veloce, troppo ruggente, troppo aitante, troppo vincista; un mondo in cui saranno per sempre destinati a rimanere fermi in mezzo a una strada a guardare un’auto fiammante guidata da un baldo e attraente giovanotto, che si allontana rombando e lasciandoli a mordere la polvere.
Un romanzo corale, dunque, caratterizzato da una pluralità di voci che si sovrappongono, si intrecciano e si mescolano, in una polifonia linguistica in cui non solo ogni gruppo etnico parla una propria, peculiare forma di inglese, ma anche ogni singolo personaggio ha un proprio idioletto, che lo rende riconoscibile non appena apre bocca.
Ed è proprio questa polifonia ad aver rappresentato la sfida più importante nel tradurre il romanzo: ricreare in italiano la molteplicità linguistica che spazia dal Black English dei neri più anziani emigrati dal Sud al gergo giovanile di Deems e della sua banda di spacciatori, e alla mescolanza tra registri bassi e metafore poetiche e tra prosa e versi che caratterizza la parlata dei personaggi irlandesi.
Il ritmo è incalzante e cattura fin dalle prime pagine; periodi lunghissimi, in cui la voce narrante si abbandona a un lento fluire di riflessioni, si alternano a battute fulminanti da una riga. E tutto il romanzo è pervaso da un umorismo esilarante e irriverente, la nota disincantata che accomuna i personaggi e fa da collante alla varietà delle situazioni e dei piani narrativi.
Eppure nel romanzo emerge a tratti anche un’altra nota, una rabbia consapevolmente repressa che ogni tanto esplode all’improvviso, ma che scorre sotterranea per tutto il libro, e trae alimento dal mare delle ingiustizie che segnano la storia degli abitanti delle Cause Houses.
Quando alla fine Sportcoat ricorda il momento in cui ha sparato a Deems, quel ricordo apre la cateratta di “un’assoluta, incrollabile rabbia” che cova in fondo al suo carattere bonario, e proietta una luce più complessa sull’intero romanzo.
E questa rabbia trova nel comico la sua migliore modalità di espressione, capace di dominarla, di darle una forma espressiva più efficace senza lasciarsene travolgere, e di colpire con maggiore immediatezza la mente del lettore perché coinvolge un meccanismo primordiale come la risata. Come già abbiamo visto in The Good Lord Bird, per gli africani americani l’umorismo è storicamente una strategia di sopravvivenza, una valvola di sfogo, un mezzo per dominare il dolore e la sconfitta conservando la dignità, il registro che permette di esprimere il lutto e il rancore nelle modalità più efficaci e incisive, e di riaffermare la propria umanità di fronte all’annientamento e allo sterminio di massa.
Ridere non è una medicina; non guarisce il male che affligge le Cause Houses, o la città e il Paese che le hanno create, o lo stesso Sportcoat; non è una cura per ciò che ha spinto lui a bere, o la moglie a buttarsi nel porto. Eppure il riso è forse l’immagine che ci accompagna e persiste in noi al termine del libro, quando lo immaginiamo sulle labbra di Sportcoat mentre pronuncia le ultime parole: “È bellissimo”.
Silvia Castoldi