In occasione dell’uscita de Il Libro delle Due Vie, la traduttrice Lucia Corradini Caspani racconta la sua esperienza di traduzione con il romanzo di Jodi Picoult.
Per una curiosa coincidenza, quando ho iniziato a tradurre Il Libro delle Due Vie, mi era da poco stata chiesta la traduzione di una pagina mancante per la più recente riedizione di Peter Pan, che s’inserisse armoniosamente nella versione d’autore di Milli Dandolo. Sulle prime, mi ha sorpreso trovare nel libro di Jodi Picoult, a epigrafe, una citazione dal classico di J.M. Barrie: «La morte sarà una straordinaria avventura». Ma procedendo nel mio lavoro, il motivo profondo di quella scelta da parte dell’autrice mi è apparso sempre più evidente.
Con i libri di Picoult, molti dei quali, a differenza di questo, sono dei legal thriller, non faccio mai precedere la mia traduzione dalla lettura: non tanto per la suspense, che in tutti i casi è un elemento fondante dei suoi romanzi, quanto invece per riprodurre nel modo più immediato e diretto possibile la costruzione e il ritmo del racconto in tutta la loro peculiarità. In alcuni titoli, l’autrice adotta l’espediente narrativo che consiste nel presentare lo stesso episodio dal punto di vista dei diversi personaggi principali, ciascuno dei quali lo arricchisce di dettagli e ne omette altri, per lui inesistenti o meno importanti. In questi casi, chi traduce dovrebbe ricreare nella lingua di arrivo quella fondamentale differenza di approccio, rendendo diversa e riconoscibile la personalità di ciascuno, altrimenti la lettura risulterebbe ripetitiva e noiosa. Nel Libro delle Due Vie, invece, l’io narrante è sempre Dawn, la protagonista, mentre quello che cambia è la scansione temporale. Se l’antico Libro delle Due Vie dell’antico Egitto – del quale è stata realmente scoperta in tempi recentissimi la prima «edizione» incisa nella roccia – era incentrato su due strade che l’anima del defunto poteva percorrere per giungere al cospetto di Osiride, anche la vita di Dawn si snoda lungo due vie, per un certo tempo staccate l’una dall’altra, ma poi destinate a intersecarsi e a rimanere intrecciate per il resto della sua esistenza, secondo modalità e priorità dettate dalle scelte che non può più evitare di compiere. Nel racconto, la successione temporale degli eventi è tutt’altro che lineare e, se inizialmente il lettore può sentirsi disorientato (anche il traduttore!), in breve finirà per lasciarsi guidare in una concatenazione cronologica discordante da quella più plausibile e attesa, e funzionale non solo a creare un effetto sorpresa, ma anche e soprattutto a sottolineare l’incursione dell’imprevedibile in una quotidianità che sembrava o già tracciata e ben delineata, oppure chiara e inequivocabile quanto meno riguardo alla meta da raggiungere. È la comparsa inaspettata e improvvisa della morte con la sua ineluttabilità a indicare a Dawn il cammino da seguire, una prima volta lasciandola devastata dal dolore per la perdita di una persona cara, e la seconda minacciandola direttamente da vicino, così da vicino che il suo passaggio le imporrà una scelta destinata a cambiarle la vita. L’effetto sliding doors, ovvero la domanda «Come sarebbe andata se mi fossi comportato in maniera completamente diversa?», che a tutti, prima o poi, capita di porsi riguardo a circostanze sia banali che sostanziali della propria esistenza, adombra una questione di fondo: «Quello che ho fatto, è veramente quello che volevo fare?».
L’ambientazione di buona parte della storia nel mondo degli scavi archeologici egizi, con i loro suggestivi ritrovamenti di enigmatici testi da decodificare, regala una dimensione esoterica che arricchisce di aspettativa la lettura. Genericamente, e soprattutto superficialmente, si tende a credere che l’antico Egitto fosse dominato da una sorta di ossessione della morte, attestata dalle sue tombe monumentali, dai riti pittoreschi e complicati, dai meticolosi papiri funerari. In realtà, è vero il contrario: gli antichi Egizi amavano a tal punto la vita da illudersi di riuscire a non perderla grazie a una serie di escamotage e di immaginarie prove da superare. Quando Dawn abbandona la brillante carriera di egittologa alla quale pareva destinata per diventare invece una doula di fine vita, ossia per guidare e assistere il morente e la sua famiglia nel difficile cammino verso la dipartita, compie un cambiamento solo all’apparenza radicale, ma di fatto allineato con un interesse profondamente umano, lo stesso che l’aveva condotta nel deserto a decifrare iscrizioni illeggibili. Vita e morte sono le due facce della stessa medaglia, sono la medesima avventura che ciascuno di noi non può rifiutarsi di sperimentare dal preciso istante in cui viene al mondo, magari giungendo all’estremo di decidere di non scegliere, proprio come Dawn aveva tentato di fare.
Che affronti questioni cruciali come in questo Libro delle Due Vie, o che tratti temi scottanti e di controversa attualità, quali il bullismo (Diciannove minuti), il pregiudizio razziale (Piccole grandi cose), la discriminazione sessuale (L’altra famiglia), l’eutanasia (La solitudine del lupo), oppure ancora la difficile convivenza con sindromi e patologie poco comuni, come quella di Asperger (Le case degli altri), l’osteogenesi imperfetta (La bambina di vetro), la leucemia promielocitica acuta (La custode di mia sorella), Picoult si distingue sempre per un’accurata documentazione sull’argomento e per l’uso sapiente delle «parole per dirlo». Quando l’intento è restituire un contesto, come per esempio quello della vita degli adolescenti americani, in tutta la sua vivacità e immediatezza, per chi traduce si tratta di calarsi nella realtà di un’altra nazione rendendola comprensibile anche a un lettore che potrebbe conoscerla solo superficialmente o approssimativamente. Non a caso, Picoult ricorre spesso a colorite espressioni idiomatiche o a quei giochi di parole che talvolta vengono segnalati con una nota a piè di pagina che dice soltanto «Gioco di parole intraducibile». Provare a sostituirli con modi di dire attinti a una lingua ricca e sfaccettata come quella italiana può rivelarsi una sfida avvincente, un gioco che talvolta è davvero impossibile, ma che quando riesce, ossia quando si inserisce senza soluzione di continuità nel narrato, procura una soddisfazione quasi infantile e, per l’appunto, giocosa.
Nei libri di Jodi Picoult anche gli incipit sono sempre particolari e significativi. Mi rimane in mente quello di La custode di mia sorella: «Quando ero piccola, il grande mistero, per me, non era come nascono i bambini, ma perché». Ma l’incipit, o più precisamente l’intero prologo, del Libro delle Due Vie, presenta un’altra singolarità: a un certo punto della narrazione lo ritroveremo. E sapendo molto di più, rispetto a quando abbiamo aperto il libro per la prima volta, lo inquadreremo in una nuova luce, che lo trasformerà nella chiave di lettura dell’intero romanzo.
Lucia Corradini Caspani