In occasione dell’uscita di Il manoscritto, Federica Angelini ci racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Franck Thilliez.
Alla Fnac di Lione a Ferragosto c’erano le pareti ricoperte di copie di Le manuscript inachevé di Franck Thilliez per il solo fatto che usciva la versione tascabile, visto il successo della prima edizione. Un’emozione, anche perché mi trovavo a Lione non per caso, dopo aver attraversato la Savoia e aver visitato almeno in parte la regione in cui si svolge metà del romanzo che ho avuto la fortuna di tradurre lo scorso inverno, una zona non troppo battuta dalla letteratura contemporanea. La meta in cui ho trascinato la famiglia è stata scelta proprio perché ci avevo già virtualmente trascorso alcuni mesi della mia esistenza, esplorandone città, boschi, strade con la voglia, rimasta più che mai viva dopo mesi e altre traduzioni, di vederli appena possibili dal vivo. Tra questi c’è ovviamente l’incantevole Annecy, città natale di Thilliez che predisporrebbe più a frequentazioni letterarie di stampo bucolico che a thriller ad alta tensione come appunto Il manoscritto.
Ma l’apparenza, si sa, inganna. Come questo libro inganna continuamente il lettore, facendogli credere ciò che di volta in volta credono i protagonisti, per poi costringerlo in continui vicoli ciechi e metterlo di fronte a colpi di scena in cui viene spiazzato e costretto a ricostruire un nuovo orizzonte di aspettative, a riorganizzare i dati in suo possesso, a riavviare il ragionamento. Una costruzione e un incastro perfetti dove alle citazioni o alle soluzioni “già viste” si intrecciano personaggi originali e sorprendenti nella loro intimità, non solo Liane o Jullian, ma anche gli ispettori di polizia con cui finisci inevitabilmente per fare amicizia per come riescono a opporre sempre e comunque la ragione all’orrore. Il tutto mentre ti muovi in equilibrio su una linea tra giusto e sbagliato, buono e cattivo, sempre più sfuggente.
Un viaggio dentro un gioco di specchi dove la parola memoria viene continuamente riscritta, ricontestualizzata, rivissuta. Cosa siamo noi senza memoria? Quanto ci condizionano i ricordi? Quanto siamo ciò che abbiamo già vissuto indipendentemente dal fatto che ce lo ricordiamo o che lo abbiamo rimosso? E poi c’è la ragione contro l’orrore, l’abisso dell’orrore in cui può sprofondare l’uomo per le cicatrici di una memoria che diventa fisica.
C’è anche una memoria letteraria, esplicita e chiamata in causa. Ci sono i rimandi a grandi classici del genere, anzi dei generi, perché Il Manoscritto è sia un giallo di investigazione classico, sia un noir ad altissima tensione. E infatti le citazioni vanno da Stephen King a Conan Doyle fino a Maurice Leblanc e il suo Arsène Lupin e non a caso durante la traduzione del libro ho pensato fosse utile “ripassare” questi testi, pilastri del lavoro di Liane, ossia di Thilliez. Impossibile non pensare anche a Il silenzio degli innocenti di Thomas Harris in alcuni passaggi.
Un gioco intellettuale che sta dentro e fuori dal libro, che chiama in causa il lettore così come gli investigatori sul campo. Ma anche una storia viscerale che avvinghia e fa tenere il fiato sospeso fino alla fine. Anche dopo la fine. E che non è stato facile chiudere e consegnare, tanta era la voglia di limare, verificare, controllare, rivedere un testo che si può leggere e rileggere senza mai stancarsi. E per quanto sarebbe ovviamente criminale rivelare alcunché di una trama mozzafiato, la lettura è piacevole anche se si conosce il finale, anzi i tanti finali: ogni volta si resta ammirati da una costruzione che sfiora la perfezione. Anzi, forse, come sempre, la rilettura senza la foga del “girar pagina” può permettere di apprezzare una serie di dettagli che la suspense potrebbe portarci a trascurare.
E anche di apprezzare quella lingua asciutta, essenziale che vuole dar spazio innanzitutto a una storia che ne contiene un’altra e poi un’altra e un’altra ancora, una mise en abîme che mescola letteratura, arte, pensiero e corpi, sentimenti e ragione, risentimento e speranza, orrore e riscatto. Una lingua che non ha bisogno di arzigogoli, che non offre distrazioni. Dialoghi cesellati, credibili, indispensabili alla trama e insieme alla composizione dei personaggi, mai puramente decorativi, sempre capaci di aprire un varco, offrire un’angolatura nuova su una situazione. Senza contare quei giochi di parole in codice che sfidano innanzitutto le abilità da enigmista di lettore e traduttore.
Tradurre Thilliez è stata innanzitutto un’operazione di equilibrio e tensione, nella resa dei dialoghi, nella suspense che attraversa tutto il romanzo e ti impedisce di lasciarlo a metà. Evitare gli orpelli, arrivare all’essenziale, trovare un ritmo che cambia velocità tra nord e sud della Francia. Tra ciò che accade sul mare battuto dai venti e dalle maree della costa d’Opale in inverno e la zona tra Grenoble e Lione, tra la storia personale di un’indagine condotta da una madre, moglie, scrittrice ferita e quella di un commissariato di polizia, in una Francia dove, una volta tanto, Parigi rimane solo sullo sfondo.
Federica Angelini