Tradurre «Il re ai confini del mondo» di Arthur Phillips

•   Il blog di Fazi Editore
A A A
Phillips

In occasione dell’uscita di Il re ai confini del mondo pubblichiamo la riflessione di Silvia Castoldi sulla sua esperienza di traduzione con il romanzo di Arthur Phillips.

 

Un romanzo storico, un romanzo di spionaggio, un romanzo filosofico: Il re ai confini del mondo riesce a essere tutte e tre queste cose contemporaneamente. Negli ultimi anni del regno di Elisabetta I, che non ha avuto figli e il cui erede è quindi Giacomo VI di Scozia, il figlio di Maria Stuart, tutti si interrogano sulla vera fede del re scozzese: è davvero protestante, come si professa in pubblico? O è segretamente cattolico, come la madre, decapitata da Elisabetta, e una volta salito al trono getterà la maschera, e riprenderà a perseguitare i fedeli della Chiesa d’Inghilterra, come aveva già fatto la sorella maggiore di Elisabetta, Maria la Sanguinaria? E come si fa ad appurare una cosa del genere al di là di ogni ragionevole dubbio?

Tra queste pagine ritroviamo non solo il grande tema dei romanzi di spionaggio, il tradimento, ma anche la grande domanda che vi si lega, ovvero: di chi puoi fidarti? Solo che qui la domanda assume una portata ancora più radicale: di quale realtà puoi fidarti? La realtà come la percepiamo noi è affidabile? È possibile raggiungere la Chiarezza, ovvero una conoscenza pura, cristallina; l’assoluta certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le cose stiano in un determinato modo e non in un altro?

Tutti la cercano, a partire da bin Ibrahim, il perfido consigliere dell’ambasciatore del sultano degli ottomani presso la corte inglese, il quale “sognava il paradiso non come compariva nelle scritture, ma come lui sperava che fosse: ogni risposta a ogni domanda, una conoscenza perfetta”. Per lui la sete di Chiarezza si identifica con la sete di potere; per Geoffrey Belloc, l’agente che architetta il complotto spionistico volto ad appurare la vera fede religiosa di re Giacomo, come pure per i suoi alleati e datori di lavoro, dalla Chiarezza dipendono le sorti dello Stato (la possibilità di scongiurare il pericolo di una nuova fiammata di conflitti religiosi) e anche i loro destini personali; per lo sventurato protagonista, il medico turco che per colpa dei complotti di bin Ibrahim è stato abbandonato in Scozia, sulle inospitali lande settentrionali di un’isola fredda e povera, ai confini del mondo, la Chiarezza è forse l’unico modo possibile per avere la speranza di tornare in patria, dopo tanti anni, e rivedere la moglie e il figlio.

Come dicevo, questo è anche un romanzo storico, e uno dei suoi grandi protagonisti è lo splendore del teatro elisabettiano: è un teatrante ad architettare insieme a Geoffrey Belloc il complotto per spiare il re di Scozia, e non a caso Geoffrey gli dice: “Trama con me”. L’autore inserisce nel romanzo citazioni tratte da una pseudo tragedia shakespeariana, il King Arthur (da lui inventata in un altro suo romanzo, The Tragedy of Arthur), e da un dramma che il teatrante complice di Belloc scriverà ispirandosi proprio alla “trama” che loro due hanno escogitato, il che mi ha messo di fronte al compito non facile di riprodurre in italiano il ritmo del “blank verse”, il metro del teatro elisabettiano.

Perché lo spionaggio, e più in generale la vita, sono come un’opera teatrale, in cui i protagonisti recitano la propria parte sforzandosi, come fa un drammaturgo, di capire quali saranno le mosse degli altri personaggi, senza però avere un testo scritto che faccia da guida, e senza poter sapere con certezza come sarà il finale; o addirittura scrivendo essi stessi, in tempo reale, con i loro racconti e resoconti, il copione della vita e della storia, e il relativo finale.

E la posta in gioco (in questo caso il destino dell’Inghilterra) dipende in primo luogo da come le parti in causa immaginano il futuro, e quale di queste diverse immaginazioni si rivelerà la più forte e diventerà realtà. Il compito più alto per l’intelligenza è rappresentarsi un futuro, consolidarlo nella mente e poi, dopo averlo capito alla perfezione, facilitarne un arrivo calmo e fluido.

La vita stessa è quindi solo un gioco di scatole cinesi, in cui la Chiarezza diventa un miraggio che sfugge davanti a chi la insegue, brancolando nel buio, sperduto e prigioniero di una foresta di interpretazioni; l’unica strategia possibile è coltivarne l’ambiguità, giocando su tavoli diversi e dando a ciascuna narrazione l’illusione di aver prevalso sull’altra.

Il mondo è un continuo dispiegarsi di possibilità infinite, che solo l’occhio infinito di Dio può contemplare; tutte ugualmente reali e compresenti, e in cui è vano cercare di distinguere causa ed effetto, vizi e virtù, azioni e conseguenze. Dio soltanto possiede la conoscenza assoluta, ma quella conoscenza è concepibile dagli uomini unicamente come un nodo ribollente di possibilità, un’infinita vertigine in cui coesistono tutti i possibili significati. E la scelta è tra opporsi a questo scacco del senso, ostinandosi nella ricerca di una Chiarezza impossibile, oppure cavalcarlo e strappargli un’effimera vittoria, per chi si accontenta di una vittoria effimera.

E dato che la ricerca di senso è un’attività che accomuna sia gli scrittori, impegnati nella costruzione di una narrazione dotata di senso agli occhi del lettore, sia i traduttori, che questo senso al lettore hanno il compito di restituirlo, credo che questo romanzo contenga anche, tra le righe, una riflessione su ciò che significa dare vita alle storie, con la parola scritta e tradotta.

 

Silvia Castoldi

Privacy Policy   •   Cookie Policy   •   Web Design by Liquid Factory