Giulia Gresti, traduttrice de Il tempio di Fortuna, svela alcuni dettagli sul terzo capitolo della trilogia storica di Elodie Harper.
Il tempio di Fortuna è il romanzo conclusivo della trilogia di Elodie Harper, Le lupe di Pompei, che narra le imprese di Amara – schiava, liberta, concubina – in un’età antica dai colori estremamente contemporanei.
In questo terzo capitolo della saga, senz’altro il più dinamico, Harper tira le fila di tutte le tematiche con cui aveva sapientemente intessuto i due volumi precedenti. Vediamo qui un’Amara adulta, autentica eroina dalle tinte epiche, che si erge nel cammino della vita con una consapevolezza forgiata sull’infinita serie di dolori, umiliazioni e lotte che ha dovuto affrontare sin da giovanissima.
Sono passati tre anni e Amara si è ormai stabilita a Roma, dove vive con il ricco e potente Demetrio, un liberto che ha compiuto una brillante scalata sociale fino ad approdare alla cerchia dei consiglieri dell’imperatore Vespasiano. Per quanto molto più anziano di Amara, Demetrio è un ottimo partito, poiché non solo ha denaro e potere, ma le ha promesso di sposarla, rendendola così una donna del tutto rispettabile. Questo apparente lieto fine cela però un’ombra che Amara non sembra disposta ad accettare. Demetrio, infatti, dimostra scarso interesse verso l’idea di adottare la figlia di Amara, Rufina, che vive ancora a Pompei nella casa dell’influente Giulia Felicia, dove viene cresciuta dallo schiavo Filone, che è anche il padre naturale della bambina.
Amara sa che il futuro della piccola dipende quasi esclusivamente dalla protezione di Demetrio poiché, se emergesse che è figlia di uno schiavo, Rufina perderebbe il diritto alla libertà. La minaccia incombe, dal momento che Felicio, ex lenone di Amara, è al corrente dei fatti e la ricatta. Con questo fardello, Amara intraprende da sola l’ultimo viaggio a Pompei prima delle nozze con Demetrio, dalle quali dipenderanno le sorti di Rufina e il futuro di entrambe.
Ma la dea Fortuna ha in serbo colpi di scena che vanno ben oltre la cerchia privata della protagonista: Amara, infatti, approda a Pompei nel 79 d.C., poco prima dell’eruzione del Vesuvio. Da qui in avanti, sullo sfondo di una tragedia storica dai contorni unici e senz’altro adatti all’ambientazione romanzesca, Harper ci offre un concatenarsi di fatti narrati con urgenza incalzante: la fuga di Amara da Pompei insieme a Rufina, Filone e Britanna; la perdita di quest’ultima lungo il cammino; le infinite peripezie da superare prima di giungere finalmente in salvo.
Dopo l’apnea che aveva caratterizzato il volume precedente, questo capitolo finale delle avventure di Amara è una corsa a perdifiato tra i lapilli incandescenti. Pur non avendo smarrito l’impeto e la passionalità che la contraddistinguono, Amara ha imparato a essere dura, spietata se necessario, e a prendere decisioni calcolate con freddezza in base al tempismo imposto dalla volubile dea Fortuna. Così l’eruzione del Vesuvio si trasforma in un’occasione da cogliere per sigillare le ferite del passato e costruire qualcosa di nuovo, di cui andare fiera. L’amore è ancora una volta il motore trainante, ma Amara è ormai consapevole che da solo non basta. Ecco allora intervenire la potenza dell’amicizia tra donne, fil rouge dell’intera trilogia, e quell’inesauribile resilienza grazie alla quale Amara è sempre riuscita a salvare se stessa e i propri cari. La tematica dell’emancipazione, uno dei motivi centrali della saga, viene qui ripresa e portata alle estreme conseguenze nell’ultimo, decisivo incontro tra Amara e Felicio.
Tradurre questo libro ha significato innanzitutto avere il privilegio di gioire del trionfo di Amara ancora prima di lettrici e lettori, ma è stato anche come “tornare a casa”. Sono lieta di aver avuto l’opportunità di addentrarmi di nuovo nell’universo di Harper, così attuale e vivo, e di confrontarmi con la disinvoltura dell’autrice nell’impregnare un tempo lontanissimo di argomenti universali e prettamente contemporanei. Farlo in solitaria, anziché a quattro mani come nel volume precedente, ha reso l’esperienza ancora più immersiva; mi auguro che per chi legge sarà lo stesso.
In questo romanzo mi sono imbattuta in elementi della tragedia e dell’epica antica, come la catastrofe – rappresentata dall’eruzione del Vesuvio –, il viaggio, il superamento di prove sempre più ardue, il tema del lutto, il topos della terra promessa. Ma narrati da una prospettiva femminile, persino matriarcale, in cui le figure eroiche sono donne, bambini, schiavi, gladiatrici; i miti del patriarcato antico (e presente) sono stati quasi del tutto sconfitti e relegati sullo sfondo, dove rimangono cristallizzati, obsoleti.
La rivolta è compiuta: per Amara è finalmente tempo di condurre un’esistenza piena, fatta di legami affettivi ma anche di un lavoro dignitoso e gratificante, in cui mettere a frutto l’intelligenza e la cultura che la società avrebbe voluto reprimere in lei. È tempo di camminare a testa alta, senza mai voltarsi indietro verso le ceneri di un passato che, come Pompei, è ormai sepolto per sempre.
Giulia Gresti