Tradurre «La fine del viaggio» di R.C. Sherriff

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Silvia Castoldi, traduttrice dei romanzi di R.C. Sherriff, ci racconta le particolarità di La fine del viaggio.

 

La fine del viaggio è un dramma scritto nel 1928 e ambientato nelle trincee in Francia durante la prima guerra mondiale. Tutta l’azione si svolge nel rifugio riservato agli ufficiali di una compagnia di Fanteria dell’Esercito Britannico tra il 18 e il 21 marzo 1918, nei giorni che precedettero l’inizio dell’offensiva di primavera tedesca.

Sherriff lo scrisse basandosi sulle sue esperienze: si era infatti arruolato poco dopo l’inizio del conflitto, prestando servizio come ufficiale nel nono battaglione dell’East Surrey Regiment.

La trama è basata sulle vicende della Compagnia C, comandata dal capitano Stanhope, la quale si è appena trasferita in trincea per un turno di sei giorni. A breve è previsto un massiccio assalto tedesco.

All’inizio del dramma Raleigh, un neoufficiale diciottenne, entra a far parte della compagnia: Stanhope, che ha quattro anni più di lui, ha frequentato la sua stessa scuola, è sempre stato il suo eroe e prima dell’inizio della guerra era fidanzato con la sorella di Raleigh. Ma il giovane capitano è radicalmente cambiato: dopo tre anni trascorsi senza interruzione sul fronte occidentale è sull’orlo di un esaurimento nervoso, e riesce a sopportare la tensione, e a svolgere il suo incarico in maniera esemplare, solo ingozzandosi di whisky.

La maggior parte del dramma consiste in scambi di battute tra Stanhope e i suoi quattro ufficiali: Osborne, il più anziano e saggio, che tutti chiamano «zio»; Trotter, grassottello, spensierato e in apparenza superficiale; Hibbert, terrorizzato, che finge di essere affetto da una nevralgia nel tentativo di farsi assegnare un congedo per motivi di salute; e lo stesso Raleigh, attraente e innocente, ignaro della dura realtà della trincea.

Le rappresentazioni realistiche della vita dei soldati durante la prima guerra mondiale abbondano ormai da tempo in letteratura, cinema e televisione, e il dramma di Sherriff tocca molti temi ormai ben noti: la cinica vanagloria degli Alti Comandi che sacrificano vite a cuor leggero per sferrare attacchi dagli esiti suicidi; le file di soldati falciati dal fuoco delle mitragliatrici, impigliati nel filo spinato o fatti a pezzi da un colpo di granata; il peso psicologico delle condizioni estreme della vita in trincea; il coraggio e la vigliaccheria che convivono fianco a fianco, non solo dentro uomini diversi ma anche nella mente e nel cuore di ciascuno di loro.

Eppure l’opera è stata messa in scena per la prima volta solo dieci anni dopo la fine della guerra; quella che oggi ci appare come l’ennesima, efficace conferma di ciò che sapevamo già deve aver esercitato un impatto molto più forte in un’epoca che forse non si era ancora liberata del tutto dalla retorica militaresca, e in cui i superstiti del fronte erano ancora vivi e in grado di confrontare ciò che vedevano sul palcoscenico con le loro esperienze personali.

Dati i limiti evidenti del mezzo teatrale, il dramma si basa sul dialogo e sui resoconti dei personaggi: tutta l’azione che si svolge all’esterno della trincea è presentata indirettamente, sia tramite coloro che entrano per trasmettere rapporti e ricevere ordini, sia grazie a mezzi scenici come le luci e i rumori dell’artiglieria e le grida dei soldati da dietro le quinte.

Tuttavia, proprio l’ambientazione ristretta, claustrofobica del dramma, confinato nello spazio ridotto di una sola “stanza” della trincea, contribuisce ad aumentare la tensione, man mano che il momento della temuta offensiva tedesca si avvicina.

Sono proprio la scarsità dei dettagli e l’ampio spazio lasciato all’immaginazione che fanno emergere con maggior nitidezza il contrasto tra periodi di quiete minacciosa e altri di attività frenetica; la noia punteggiata da momenti di paura paralizzante; il vitto pessimo, i topi onnipresenti; la devastazione della mente umana in condizioni estreme, in cui chiunque, se sopravvive abbastanza a lungo, rischia di raggiungere il proprio punto di rottura. Una delle scene più geniali e coinvolgenti del dramma è quella del confronto tra Stanhope e il terrorizzato Hibbert, dove il giovane capitano non esita a rivelare all’ufficiale suo sottoposto che la linea coraggio-paura che li separa è in realtà sottile come un capello.

La potenza teatrale di La fine del viaggio, l’efficacia con cui Sherriff riesce a indagare l’amicizia e il cameratismo da una parte, e dall’altra la noia, la paura, la solitudine, il dolore del lutto quando i compagni cadono e la totale frustrazione di dover eseguire ordini dall’alto che avranno risultati devastanti, vengono ulteriormente accresciute dal contrasto tra la tragica condizione dei protagonisti e l’umorismo sottile e costante che pervade gli scambi di battute tra i personaggi; un umorismo che si delinea ben presto come strategia di sopravvivenza psichica di fronte all’orrore, ma che riesce sempre a strappare un sorriso. A generare un’atmosfera tra il comico e il surreale è il forte contrasto tra la tragica straordinarietà della vita militare e il continuo ricorso da parte dei personaggi al linguaggio ordinario, quotidiano e colloquiale dell’epoca: termini ed espressioni come, per citarne alcuni, «topping», «it’s rotten», «bloody», o l’intercalare «I say» hanno un sapore d’altri tempi che ho cercato di restituire in italiano rendendoli rispettivamente con «fenomenale», «è una scalogna», «della malora» e «perbacco».

Oltre a essere un documento storico, l’opera di R.C. Sherriff rappresenta ancora oggi una potente accusa alla guerra e alle società che la creano. L’abilità dell’autore la eleva al livello di tragedia umana, valida per il suo periodo storico ma ancora oggi capace di scuoterci e di spingerci a riflettere.

Silvia Castoldi

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