In occasione dell’uscita di L’altro, Giuseppe Marano racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Thomas Tryon.
Tradurre L’altro di Thomas Tryon è stata un’esperienza particolare per vari motivi. In primis “anagrafici”, perché per la prima volta mi sono cimentato con un romanzo dato alle stampe prima della mia data di nascita. In secondo luogo, perché si trattava di ritradurre un testo già pubblicato in lingua italiana nel 1972 per i tipi di Mondadori nella suggestiva versione di Bruno Oddera, cioè uno dei più grandi, prolifici e stimati traduttori italiani. Un precedente quanto meno impegnativo, quindi, con il quale sarebbe stato inevitabile confrontarsi.
Si aggiunga poi che L’altro è un romanzo del 1971, ambientato quasi totalmente nel 1935. E questo poneva subito la questione del registro da adottare per la lingua di arrivo: se è pacifico che l’italiano dei primi anni Settanta non è certo quello di oggi, figurarsi quello degli anni Trenta. La sfida era dunque come adattarsi in maniera mimetica a questo divario temporale, per restituirlo fedelmente alla narrazione senza scivolare in scelte lessicali fuori contesto. In parole povere, e forse in controtendenza rispetto ad alcuni orientamenti attuali, ho cercato quanto più possibile di leggere e tradurre L’Altro con gli occhi di un lettore e di un traduttore del 1971.
C’è da dire che un grande aiuto, in tal senso, è venuto direttamente dalla scrittura di Tryon, di impressionante maturità per un’opera prima, e su cui di certo avevano influito le esperienze cinematografiche dell’autore. Colta e visionaria, sorretta da un vocabolario ampio e variegato, perennemente in bilico tra l’immaginifico e lo scanzonato, l’allusione e il sense of wonder, costellata di esotismi e di termini desueti o inconsueti (asinine, gargantuan, legerdemain), ma spesso anche da un registro parlato farcito di storpiature colloquiali, intercalari e interiezioni peculiari (come la spassosa sequela di “Honest ta Pete”, “Ohm’gosh”, “For the love a Pete”, “My heavens”, “For Pete’s sakes”, “For cripes sakes”, resi rispettivamente con “Santa miseria”, “Accipicchia”, “Ma santa pazienza”, “Santi numi”, “Santo cielo”, “Per la miseria” e via dicendo).
Altrettanto importante, poi, è stato il raffronto operato sia con la precedente traduzione sia con il doppiaggio italiano dell’adattamento cinematografico (Chi è l’altro? del 1972, per la regia di Robert Mulligan e sceneggiatura dello stesso Tryon). La traduzione di Bruno Oddera, al netto dei segni del tempo, offriva una serie di spunti e di soluzioni lessicali che in alcuni casi ho ritenuto utile riprendere, integrare o sviluppare. Mi riferisco in particolare all’uso di alcuni regionalismi come “babbo”, “trebbia”, o il “venghino siori e siori” nella tiritera dell’imbonitore da circo, ma anche ad apparenti anacronismi come “fazzoletto da collo” in luogo di “bandana”. Anche il Porcellino Golosino (“Piggy Lookadoo”) è una felice intuizione di Oddera, come pure l’ispirazione per risolvere un intraducibile gioco di parole tra chink, termine spregiativo per indicare i cinesi, ma che in inglese significa primariamente “crepa”, e plastered, “intonacato”, ma anche “sbronzo”.
Come fa notare Dan Chaon nella postfazione, L’Altro è un tour de force di progettazione, una profusione ipnotica di immagini evocative e di generi diversi, che trovano un adeguato corrispettivo nelle innumerevoli citazioni disseminate nel testo, alcune esplicite, altre più criptiche. I riferimenti spaziano a trecentosessanta gradi, dalla storia all’arte, dalla letteratura alla musica, senza tralasciare cronaca, cinema, botanica, mitologia, folklore, cultura popolare e poesia. Gli esempi sarebbero tanti, mi limiterò a citarne qualcuno in ordine sparso, laddove la citazione ha necessitato a sua volta di un’altra citazione.
In un paio d’occasioni, fra le righe del romanzo fa capolino Thomas Moore, prima con alcuni versi di The Minstrel Boy, che in un primo momento avevo deciso di tradurre, ma poi mi è parso più corretto lasciare in originale, perché il riferimento in questo caso riguardava un’incisione discografica; poi con un verso del Girasole, di cui ho utilizzato invece la bella versione di Paolo Statuti.
“Who touches a hair of yon gray head dies like a dog – march on, he said” («Chi tocca un capello a quella testa canuta muore come un cane… avanti, marsch») è invece un verso della poesia che John Greenleaf Whittier dedica a Barbara Frietchie, patriota unionista ai tempi della Guerra Civile, un componimento ben noto a tutti gli studenti americani almeno fino agli anni Cinquanta.
Per il passo dell’Apocalisse (18:2) sulla caduta di Babilonia, trattandosi del mondo protestante, filologia avrebbe imposto di usare la versione Diodati della Bibbia, o la Riveduta Liuzzi del 1924, ma per ragioni squisitamente “estetiche” ho preferito far ricorso alla Nuova Riveduta, più suggestiva dal punto di vista linguistico.
E a proposito di Babilonia, più di qualche grattacapo lo ha procurato la filastrocca di Mamma Oca che riecheggia minacciosa fin dalle prime pagine. Ho provato a riprodurne al meglio in italiano la cadenza e il ritmo, cercando al contempo di mantenere una fedeltà semantica. Il risultato è stato questo:
How many miles to Babylon? Threescore miles and ten…
Can I get there by candlelight? Yes and back again.
If your heels are nimble and light, You may get there by candlelight…
Per Babilonia quanto ancor? Settanta miglia e poi…
Prima di sera potrò arrivar? E pure tornar se vuoi.
Se i tuoi piedi son agili e lesti, prima di sera arrivarci potresti…
Ma poiché tradurre è pur sempre tradire, in alcuni casi ho dovuto operare delle scelte, sacrificando qualche doppio senso o introducendo delle variazioni arbitrarie, come l’uso del da nel parlato di Ada. Nell’originale inglese Tryon usa Yah, al quale si accompagnano talvolta delle storpiature di pronuncia che richiamano l’accento russo, come “dat” al posto di “that”. Curiosamente, la stessa scelta viene fatta nella trasposizione cinematografica, dove il “da” è esplicitato anche nei dialoghi inglesi.
Un altro adattamento più o meno arbitrario riguarda l’espressione “a crow is walking on my grave”. Sia il dizionario Ragazzini che l’Oxford Paravia traducono la frase idiomatica Someone/A ghost is walking on my grave, con “mi è passata vicino la morte” (si dice quando si ha un brivido improvviso e inspiegabile). Nella versione del 1972 Bruno Oddera la traduce letteralmente, “Un corvo sta camminando sulla mia tomba”, il che poteva avere anche un senso visto che nel romanzo la figura del corvo ricorre con una certa frequenza. Dal canto mio, confortato da un passaggio in cui il “corvo” viene assimilato esplicitamente a Holland, ho deciso di forzare più liberamente il significato. E così il crow è diventato un “fantasma”, più immediato dal punto di vista semantico.
Da segnalare, infine, la vexata quaestio del sesso degli angeli. Nella versione originale, quasi con un sottile rimando al tema dell’ermafroditismo cui si accenna nella prima parte del romanzo, l’Angelo del Giorno più Luminoso viene esplicitamente connotato al femminile: Niles usa sempre il pronome personale e possessivo “her”. Ovviamente è una sfumatura molto difficile da rendere in italiano senza ricorrere a delle perifrasi, ma ho cercato comunque di conservare questa ambiguità dove possibile, evitando contrasti stridenti o apparenti incongruenze. Da notare che sia nella traduzione del 1972 che nel doppiaggio del film l’angelo resta angelo, e l’ambiguità viene semplicemente espunta.
Rispetto al lettore comune, il traduttore ha l’enorme privilegio di poter godere appieno di ogni sfumatura nascosta in un testo, di conoscerlo intimamente, di diventarne in qualche modo partecipe. Spero vivamente che condividere una piccola parte di questo mio privilegio possa contribuire alla giusta riscoperta di un autentico romanzo di culto e di un autore formidabile.
Ho-yo-to-ho!
Giuseppe Marano