Tradurre «L’aria innocente dell’estate» di Melissa Harrison

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Stefano Bortolussi racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Melissa Harrison, L’aria innocente dell’estate, in cui la bellezza della natura ha un ruolo di primo piano.

 

«Potente e sottile»: così si è espresso Jon McGregor, giovane e talentuoso autore britannico, nei riguardi de L’aria innocente dell’estate di Melissa Harrison, con l’indovinato accostamento di due aggettivi solo apparentemente antitetici. Indovinato poiché di rado, nella mia attività di traduttore ma anche di semplice lettore, mi è capitato di trovare un romanzo in cui queste due caratteristiche, la potenza quasi epica della visione e la sottigliezza dell’analisi psicologica, si sposino in modo così fruttuoso, al tempo stesso organico e fecondo di contraddizioni.

Nella ricostruzione di un quadro rurale a noi così lontano (la vicenda si svolge nella campagna inglese dei primi anni Trenta del secolo scorso), Harrison mette a buon uso le sue straordinarie qualità di paesaggista e naturalista, scrivendo di piante, raccolti e animali con una ricchezza di note e una dovizia di informazioni davvero uniche, e al contempo ci regala almeno un ritratto psicologico memorabile: quello della protagonista e narratrice Edith, quattordicenne inquieta, curiosa ed emotivamente in bilico tra uno “stato di natura” di infantile innocenza e una vibratile percezione dei drammatici cambiamenti in atto nel proprio corpo e nella propria psiche.

Per un figlio della grande città come me, abituato più alle vibrazioni del traffico sull’asfalto che allo stormire delle fronde di un bosco, confrontarmi con l’estrema, quasi maniacale attenzione che l’autrice, e la sua protagonista con lei, dimostrano nei confronti della natura è stata una bella sfida. Io sono, lo confesso, un amante un po’ distratto del mondo animale e vegetale: possiedo anch’io i miei totem, o spiriti-guida che dir si voglia, per esempio nella mia produzione poetica; ma essi appartengono quasi interamente alla categoria dell’esotico di stampo nativo-americano (puma, orso, coyote). Chiedetemi di distinguere il verso di un uccello e vado in crisi, a eccezione del tubare dei piccioni urbani e dello stridere delle rondini a primavera; mettetemi di fronte a un albero ed è difficile, pur nella mia commozione, che riesca a indicarvene il nome.

Per questo, cimentarmi con l’estrema precisione con cui Harrison descrive boschi, cespugli, rovi, stagni e siepi e i loro abitanti e racconta l’epica quotidiana e stagionale del lavoro agricolo è stato particolarmente interessante e pieno di scoperte. (D’altra parte, sfido chiunque a dirmi, così su due piedi, cosa sia un “re di quaglie”, a parte la sua ovvia appartenenza al genere dei volatili… o si chiama classe?).

Esiste, in letteratura, un piano in cui la semplice nomenclatura diventa, per il livello di esattezza e attenzione riservato all’oggetto del suo sguardo, una forma particolarmente alta e suggestiva di poesia. È questo il caso del romanzo di Melissa Harrison, nel quale tutte le specie viventi, esseri umani compresi, sono osservate con tale intensità da trasportarci in un mondo “altro” da quello in cui si svolgono le nostre banali giornate. Spero di aver reso giustizia a questo libro insolito e memorabile.

 

Stefano Bortolussi

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