Tradurre «L’Emporio del Cielo e della Terra» di James McBride

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Silvia Castoldi, traduttrice dei romanzi di James McBride, racconta i temi principali del suo ultimo libro L’Emporio del Cielo e della Terra.

Datemi le vostre genti stanche, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di libertà. È la grande promessa scolpita sul basamento della Statua della Libertà. La promessa dell’America, il nome di un continente usato con tracotanza per indicare una sola delle entità politiche che ne fanno parte. Ed è uno dei temi comuni che emergono dai romanzi di McBride: una promessa elusa, delusa, tradita, mantenuta per i pochi a discapito dei molti.

Nella sua opera di disvelamento della storia, ancora oggi in parte nascosta e taciuta, delle minoranze che hanno forgiato gli Stati Uniti grazie all’opera misconosciuta della loro mente e delle loro mani, questa volta l’autore decide di far parlare gli ebrei. All’interno di uno stile a tratti lirico e a tratti colloquiale, con periodi lunghi, maestosi, che scorrono lenti come grandi fiumi e a cui si alternano frasi brevi, secche e incisive, la voce degli ebrei prende la forma di uno yiddish che affiora solo a tratti, ma attraversa tutto il romanzo come una corrente nascosta; fatta di parole (come fusgeyer, ‘vagabondo’, o siddur, ‘libro di preghiere’), ma anche di atteggiamenti mentali, che vanno a comporre una visione del mondo.

Una visione ironica, disincantata, capace di mettere tra parentesi, senza però banalizzarla, anche la più cruda verità. Ma anche una visione carica di passione, la passione indomita di chi non si lascia calpestare dalla cultura e dalla classe dominante, quella dei wasp che si aggirano sulla terra e tra gli esseri umani loro simili con l’arroganza di chi è convinto che tutto ciò che vede gli appartenga di diritto.

Non a caso, tra la galleria di personaggi più o meno ammirevoli o disprezzabili che ci viene presentata in queste pagine, l’unico su cui si abbatte un’insolita condanna senza appello da parte dell’autore è Doc Roberts, l’adepto del Ku Klux Klan che rappresenta il simbolo dell’arroganza dei bianchi di Pottstown. E la scure di McBride non risparmia neanche la cittadina, che viene spazzata via da un uragano subito dopo la scomparsa dell’ultimo ebreo del quartiere di Chicken Hill. Dopo di loro il diluvio.

Proprio come il simbolo dell’arroganza dei bianchi è Roberts, l’emblema dello spirito irriducibile che dai wasp non si lascia mettere a tacere è senz’altro Chona, uno dei due personaggi principali del romanzo.

Uno dei due, appunto, perché l’altro è Dodo, il ragazzino nero non udente, che porta dentro di sé un mondo intero di speranze, sentimenti, gioie e paure ma non riesce a comunicarlo. Essere nero e nel contempo diverso è un peccato mortale per il mondo dei bianchi, e Dodo finisce rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dove per sua fortuna incontra un altro come lui: «due bambini con due menti intelligenti intrappolate in corpi che non collaboravano […] costretti a vivere in un manicomio dentro cui la follia sembrava alimentarsi da sola e dare loro la carica, perché nonostante quell’orribile situazione si rallegravano per le più piccole cose».

E così McBride ci spinge a posare lo sguardo sui cosiddetti diversamente abili, sugli ultimi tra gli ultimi, abbandonati, azzerati, nascosti alla vista, rimossi, dimenticati. Disumanizzati, come tutte le altre minoranze ma in maniera molto più evidente, perché solo disumanizzando si può opprimere. E proprio come la voce intrepida di Chona, anche l’alleanza tra Dodo e Monkey Pants, il suo compagno di sventura, si trasforma in una storia esemplare di resistenza umana.

La stessa resistenza umana opposta dai Lowgod, una comunità di neri fieramente appartata e chiusa in se stessa: «I Lowgod erano riservati, sospettosi, imprevedibili e se ne stavano tra loro. […] La loro lingua era strana, piena di frasi cadenzate che scrosciavano sul terreno come gocce di pioggia. “Gullah”, la chiamavano ‒ metà inglese e metà africano ‒ piena di detti vodoo e di cose che solo i Lowgod capivano».

Accanto al modello di chi, da nero, cerca di farsi strada nella società dei bianchi, o di chi sfida l’America a mantenere le sue promesse, c’è quello di coloro che si rifiutano di integrarsi, di sgomitare per avere più spazio, di giocare a un tavolo che non è il loro, con regole che non sono state scritte da loro, ma spesso contro di loro, e di fronte alle quali si troveranno sempre, inevitabilmente in svantaggio.

E quindi, contro l’iniquità e l’ipocrisia nascoste dietro «la mitologia americana della speranza, della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia», è possibile, in qualche modo, resistere?

Stando ad alcune pagine, sembrerebbe di no. «Un giorno», scrive McBride parlando dei suoi personaggi, «la ricchezza di tutto quanto avevano portato con sé nella grande terra promessa sarebbe stata annientata, il glorioso arazzo della loro storia ridotto a una serie di spot pubblicitari da dieci secondi, vacanze vuote e incontri sportivi […] dove i celebranti avrebbero applaudito lo splendore di contorno senza la minima idea delle lotte spaventose e dell’orgoglioso passato degli antenati che avevano reso le loro vite così facili. […] Un giorno [l’America] avrebbe strapazzato le loro storie orgogliose come altrettante uova, spargendole tra la popolazione e nutrendo le masse di spazzatura mentale grazie a dispositivi […] capaci di entare in una tasca […] che avrebbero alimentato la loro oppressione mascherandola da libero pensiero».

Eppure il romanzo termina con quella che sembra una nota di speranza. L’ultimo capitolo prima dell’epilogo si conclude così:

«“Se passa qualcuno, siamo solo due tizi seduti in un campo in piena notte, che aspettano”.

“E cosa stiamo aspettando?”.

“Il futuro, Soap. Stiamo aspettando il futuro”».

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