Tradurre «L’insaziabile» di A.K. Blakemore

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Blakemore

«Voi non siete una vittima. Siete un uomo ignobile e sgradevole».
Lui rivolge i suoi addolorati occhi azzurri verso di lei.
«Non potrei», chiede il Grande Tarare, «essere tutt’e due le cose?»

Vittima. Mostro. Chi – o cosa – è Tarare? Questo interrogativo è il perno intorno al quale ruota il romanzo L’insaziabile di A.K. Blakemore; un quesito nodale che si riflette ripetute volte, come in un labirinto di specchi, e si moltiplica. Ambigua è la natura di Tarare, tanto quanto il giudizio che i diversi personaggi formulano su di lui. E questa sostanziale ambivalenza si propaga nella forma stessa della narrazione, in cui da un lato sembra decadere l’oggettività delle dimensioni spaziali e temporali e, dall’altro lato, luoghi ed epoche vengono rappresentati con una precisione pressoché chirurgica.

Come in Le streghe di Manningtree, anche con L’insaziabile Blakemore si è ispirata a fatti storici, prendendo spunto da documenti originali e da ricerche approfondite sull’epoca e sui luoghi che fanno da sfondo alla trama del suo romanzo. Così come nel libro d’esordio, Blakemore ha scelto come protagonista della sua seconda opera quello che definirei un “perdente della Storia”: un umile, un fenomeno da baraccone, un diverso. E, per questa ragione, la traduzione è stata preceduta da una fase di ricerca e di documentazione, durante la quale ho consultato i testi che l’autrice stessa aveva indicato nella Postfazione.

Tuttavia, mi pare importante precisare che la storia di Tarare non è solo un resoconto storico. Essa è, per ammissione stessa dell’autrice, soprattutto un mito. Ed è appunto nel repertorio mitologico e letterario che credo di aver trovato più riscontro e conforto: Crono che divora i suoi figli, Erissittone e la sua fame implacabile, l’ingorda Cariddi, Pantagruele e il suo proverbiale appetito.

Il linguaggio e lo stile di Blakemore hanno conservato, in questo secondo libro, la ricercatezza, l’eleganza e, in un certo senso, la stravaganza del primo. Ritroviamo la grazia evocativa delle descrizioni («l’azzurro profondo e quiescente dell’imbrunire di luglio […], l’eternità posata sulle ampie spalle di astri profetici»), il lessico arcaico e latineggiante (“proleptic”, “cadaverous”, “filament”), i neologismi (“omnitor”, “chalk imp”, “knot witch”). Volendo a ogni costo conservare questa caratteristica della scrittura autoriale di Blakemore, ho adottato la strategia che Eco ha definito “negoziazione”, il metodo della compensazione e del compromesso, recuperando ove possibile ciò che era andato perduto, usando un termine più suggestivo al posto di uno più comune se in un’altra occorrenza ero stata costretta a fare l’opposto. Dopotutto non esiste una corrispondenza biunivoca tra lingue, così come non esiste un’unica interpretazione per un testo letterario.

Un’altra caratteristica che, per interesse e vocazione personali, ho trovato particolarmente interessante in questo romanzo è il multilinguismo. Scritto in inglese, il testo contiene numerosissimi termini in francese e alcuni in tedesco, che sono stati mantenuti e non tradotti, come era stato scelto di fare nell’edizione originale. Questi cammei linguistici hanno lo scopo di evocare i luoghi e le epoche del racconto, di ricordarci che non siamo nel contesto della lingua in cui è scritto – o tradotto – il libro.

Resta comunque l’ambiguità, tematica e formale, di questo romanzo ad avermi messo più a dura prova. Senza voler svelare niente della trama – che da lettrice ho trovato splendida – per tutto il tempo non ho fatto altro che chiedermi: Chi è il vero mostro? Chi è la vera vittima? Chi detiene la verità? A chi credere? Straordinaria, la capacità di Blakemore di raccontare sospendendo ogni giudizio, lasciando a noi la facoltà e il compito di decidere se condannare o assolvere.

Velia Februari

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