Vi proponiamo un articolo di Carmelo Cascone, il traduttore di L’ultimo inverno di Rasputin, che ci racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Dmitrij Miropol’skij.
Ho incontrato per la prima volta Dmitrij Miropol’skij durante il mondiale di Russia del 2018, con Majakovskij che commentava risentito il pessimo esordio della nazionale di calcio russa alle olimpiadi di Stoccolma del 1912. L’ho incontrato di nuovo – questa volta davvero – a Pietroburgo, un anno dopo. La traduzione del suo romanzo era pressoché conclusa. Fino a quel momento avevamo parlato solo al telefono. Mi aveva illustrato il suo libro, le sue idee, il suo lavoro di scrittore e sceneggiatore. A Pietroburgo, in un hotel sul lungofiume degli Inglesi, non lontano dall’Angleterre, dove se ci fosse stato dell’inchiostro Esenin non si sarebbe tagliato le vene, come scriveva Majakovskij, abbiamo conversato di pace e di guerra, della Russia del 1916 e del 2019, di movimenti letterari e dei simbolismi storico-matematici di Chlebnikov, dei corsi e ricorsi storici. E i temi del nostro discorso sono alcuni degli elementi narrativi del romanzo, il cui titolo originale è 1916. Guerra e pace. Credo che sia opportuna una breve digressione al riguardo. Una prossimità con Tolstoj si può trovare nell’architettura narrativa di base, nella struttura, che nell’ampio respiro della narrazione e nell’interazione reciproca dei personaggi possono rimandare al capolavoro tolstojano. Il titolo originale russo di Guerra e pace è Vojna i mir’’. Esiste anche un poema di Majakovskij, composto nel 1913, intitolato Vojna i mir’’, ma qui mir’’ ha significato di ‘universo’. Anche la grafia è diversa nel cirillico (pre-riforma del 1918): миръ in Tolstoj e мiръ in Majakovskij, infatti il titolo del poema è Guerra e universo e non ha relazione con l’opera di Tolstoj. Nel romanzo di Miropol’skij, in un determinato momento, alla Sosta dei commedianti, Majakovskij declama questo poema di risoluta opposizione alla guerra. E a rifiutare la guerra è anche lui, il monaco siberiano, l’“enigmatico favorito della famiglia imperiale”, il “diavolo santo” Grigorij Rasputin, che l’autore ci mostra sotto la luce nuova d’individuo calato nella Storia e che con la Storia si misura, scevro dagli attributi demoniaci con cui siamo abituati a conoscerlo, lasciando il lettore interrogarsi sulla verità, sul movente delle sue e altrui azioni, su chi fosse nel giusto e chi nell’errore, alla ricerca d’una verità che non è nemmeno certo sia unica.
Quando ho iniziato il lavoro su L’ultimo inverno di Rasputin mi sono trovato subito davanti a una sconfinata mole di nomi, cognomi, toponimi, titoli nobiliari, titoli di opere, nomi di ristoranti, di locali, di palazzi, di battaglie, di corpi militari. Andare alla ricerca d’informazioni storiche, sociali e di costume è stato un lavoro quotidiano a cui si affiancava il lavoro sul testo; un testo dallo stile “cinematografico”, piano, lineare, che restituisce l’andamento quasi filmico del romanzo e sa al contempo farsi evocativo e introspettivo, riuscendo anche a intrattenersi (e a intrattenere) nelle descrizioni di Pietroburgo soprattutto, città protagonista della narrazione al pari d’un personaggio. Sapevo bene quello che mi attendeva, avevo studiato con attenzione il percorso da seguire, sapevo che il testo spaziava dalla poesia dei futuristi alla non-poesia della descrizione dettagliata di armi e manovre militari, dalla memorialistica alla cronaca, dalle digressioni di carattere mistico-religioso alle scene romantiche. E sapevo che la finzione comunicava con la realtà in un rapporto osmotico in cui l’una nutriva l’altra e viceversa. Ma nel lavoro di traduzione conoscere prima il testo, averlo letto nell’originale, avere perfino ricevuto diffuse spiegazioni dalla voce diretta dell’autore, può non essere abbastanza. E giacché nella parte iniziale del romanzo leggiamo anche di sport, restiamo in una metafora d’ambito sportivo: un traduttore è simile a un ciclista in una cronometro; studia bene il percorso prima della gara, conosce il tempo necessario per ottenere un buon risultato, sa che è fondamentale trovare un buon ritmo nella pedalata, sa di essere da solo; niente compagni di squadra, niente gregari ad aiutarlo: è lui il gregario adesso, il gregario di se stesso. Solo la strada, solo la solitudine. Queste le costanti. Poi la corsa ha inizio ed eccole lì, le variabili. Come molto spesso accade, la realtà si manifesta diversa da com’era stata pensata. E allora ecco che la pedalata a volte non è fluida, le salite si rivelano più dure del previsto, il fiato si fa corto proprio quando è necessario spingere a tutta, il tempo si consuma; per proseguire è necessario comprendere che l’unico modo per disfarsi di queste variabili è arrivare al traguardo, dove ci saranno ristoro e aiuto (e dopo il traguardo la redazione di aiuto me ne ha dato tanto…). Nessuna via di fuga, nessun percorso più rapido durante la corsa. Tradurre è un lavoro di mindfulness, per usare una parola molto in voga oggi. È un lavoro che obbliga a fare (e stare) bene con quello che si ha, a usarlo al meglio, ad analizzare le difficoltà, accettarle, elaborarle e volgerle a proprio favore. È un lavoro di dedizione profonda e totale, una dedizione che deve rinnovarsi ogni giorno, a ogni pagina; è la fatica di Sisifo ricompensata. Perché il masso giace ogni mattina ai piedi della montagna, ma c’è la certezza che un giorno resterà sulla vetta, con la persistenza dello sforzo. Perché il traduttore, oltre alle conoscenze tecniche, è questo che deve possedere: incrollabile costanza. Il critico Paolo Milano sosteneva che “gli errori tecnici sono di rado la causa prima della mediocrità d’un libro: dietro di essi stanno altre debolezze, che sono dell’uomo prima che dello scrittore”; io estenderei quest’affermazione anche al traduttore. Nel creare a metà, nello scrivere il già scritto, nel farsi artefice di un universo già possessore di leggi proprie che è stato qualcun altro a dargli, il traduttore deve trovare le sue di leggi e farle convivere con quelle già esistenti perché la creazione possa compiersi. E L’ultimo inverno di Rasputin di leggi ne aveva non poche. Vi si muovevano personaggi dall’estrazione e dagli accenti più disparati e dare loro i giusti timbri, accordarli in un’armoniosa polifonia, è stato il mio obiettivo. Ecco il bellimbusto Majakovskij e il corpulento Burljuk dibattere del nascente movimento futurista tra le vie di Pietroburgo; ecco l’ambiguo principe Feliks Jusupov ora abbigliato da donna, impegnato a flirtare con dei marinai in una bettola, ora gelido cospiratore; ecco le spie, Alfred Redl che vende informazioni militari ai russi e Vernon Kell, ufficiale britannico tra i principali interpreti della congiura; ecco i Romanov, lo zar e la zarina, sovrani inadatti a “cotanto offizio”, isolati dal mondo nel loro mondo, presi nel vortice di avvenimenti talora quasi incomprensibili per loro, e destinati al capestro; ecco Lenin, esule a Zurigo, prepararsi a tornare in patria per distruggerne e modificarne le fondamenta, ed ecco lui, Rasputin, semplice contadino, entrare nelle grazie dell’imperatore, governare un “prodigioso potere”, ergersi a salvatore dello zarevič malato, ma ritrovarsi dilaniato da ferite nel corpo e nell’anima e da sempre più assidui timori sul proprio destino. E molti altri, moltissimi altri ancora. Dare loro la vita, tirarli fuori dalle biblioteche in cui i libri di storia li hanno reclusi, è stata la parte più appassionante del lavoro. Così appassionante che al termine, seduto accanto al macigno finalmente saldo sulla vetta della montagna, attendevo che rotolasse giù.
Carmelo Cascone