Tradurre «Olga muore sognando» di Xochitl Gonzalez

•   Il blog di Fazi Editore - Parola ai traduttori
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Giuseppina Oneto, traduttrice di Olga muore sognando, ci racconta il suo lavoro con il romanzo d’esordio di Xochitl Gonzalez.

Olga muore sognando. Olga si occupa di tovaglioli di lino europeo al matrimonio di una famiglia ricca.

Ho incontrato così il libro di Xochitl Gonzalez. Intrigante la faccenda, mi sono detta, non lineare la sintassi. E come sempre quando si comincia il complesso percorso di tradurre un libro – un testo – si raccolgono tutti i dati necessari a ricostruire cosa c’è dietro, cosa c’è in mezzo, cosa c’è fra le righe. Perché quanto è scritto conta quanto il non scritto, quello spazio bianco fra le parole che lascia al lettore la possibilità di fare propria la storia che sta leggendo, e interpretarla a suo modo.

Ho iniziato a leggere anch’io. Ero contenta che in una narrazione contemporanea, proveniente dall’altra sponda dell’oceano, una giovane donna con alle spalle le esperienze più disparate di lavoro e gli studi e le ambizioni dettate dai suoi sogni avesse voluto intrecciare con leggerezza, umorismo, serietà e brio quanto l’ha colpita nella vita. Che una giovane autrice al suo esordio non avesse paura di affrontare temi politici, dando loro una forma comprensibile, leggibile e accettabile per chi non ha vissuto i pezzi di storia che lei narra. Che una giovane americana di seconda generazione non rinunciasse alle sue radici etniche, ma le sentisse parte profonda della sua identità.

Però, come traduttrice mi trovavo, fra le altre cose, di fronte a un problema nuovo. Nuovo da trasportare in italiano. Infatti le storie sono parole, e dalle parole conosciamo dei tasselli di mondo. Ma conoscere significa non accontentarsi più di quanto sapevamo fino a poco prima e, per afferrare meglio ciò che abbiamo davanti, dobbiamo trovare le parole giuste.

I traduttori cercano di veicolare creati mondi in altre lingue nella propria, quindi in un’esperienza linguistica che non sempre si è formata e confrontata con gli stessi problemi e gli stessi concetti.

Sapevo però, negli anni trascorsi negli Stati Uniti, che io, italiana, capelli scuri, pelle olivastra, non ero davvero bianca. L’ho imparato lì, a casa mia nessuno si sarebbe sognato di pensare che non fossi parte del “mondo bianco”; del mondo magico della purezza rosea, che ci dà diritto immediato a progresso, cultura, entrata dalla porta principale del primo mondo.

Spesso – in base all’aspetto fisico – venivo scambiata per latino-americana e vedevo facce incredule quando dicevo di non esserlo; e dicevo di non parlare spagnolo, o una delle sue tante varianti.

Non sapevo invece, ora, molti anni dopo, quanto ogni romanzo ambientato a New York, Brooklyn e dintorni mi riporta alla mia fondamentale esperienza formativa, come tradurre le varie sfumature dei colori della pelle. Io stessa, aveva imparato, sono light brown, marroncino chiaro, vista con gli occhi della strada, gli occhi che prendono le misure per stabilire di primo acchito chi sei e inserirti in una delle tante caselle fisse che facilitano (e complicano) la vita. Ma in italiano, brown? Il cuoio è marrone – nelle sue varie sfumature –, quindi le scarpe sono marroni; le stoffe, gli alberi, le castagne, la terra. Poi c’è il bruno, il bronzo, la terra di Siena, il seppia e via discorrendo. Ma le persone? Black, white, brown. Questo ovviamente per le grandi categorie, quando dal colore si deduce una provenienza etnico-geografica, una storia vissuta, imposta o subita, un fardello storico. Con i bianchi e i neri abbiamo già confidenza. Ma dovevo navigare in questo arco di colori per rendere credibile nella nostra lingua i problemi di Olga, la Olga wedding planner che si occupa di tovaglioli, e la Olga che, come tanti, muore sognando. Di tutte le Olghe che sono morte sognando e tutte le Olghe che hanno un certo colore di pelle e tentano di trovare se stesse.

Questo colore di pelle – il brown – per altro abita in zone particolari della grande metropoli americana, e nel suo incontro/scontro con la cultura statunitense produce ritmi – musicali e prosodici – tutti suoi, modi di approccio e parole tutti suoi. Qualcosa è già filtrato nella nostra penisola, da sempre aperta, per amore o per forza, alle influenze esterne. È filtrato con la musica, con i ritmi caraibici e il rap, l’hip-hop. Ho dovuto scavare in questi luoghi per trovare delle risorse linguistiche che almeno rendessero l’idea del percorso di Olga Acevedo, e di suo fratello Prieto, e dei diversi comprimari e personaggi minori che si affacciano nel romanzo.

Più facile invece è stato trovare il tono per far parlare la madre di Olga e Prieto, perché dell’esperienza politica che determina il suo personaggio, e quindi il suo linguaggio, ne avevo conoscenza diretta, dagli anni in cui alcune idee e rivendicazioni viaggiavano a livello internazionale e cercavano di avvalersi di un linguaggio comune.

Ed è così, che ancora una volta, il viaggio di una traduttrice fra le righe e le pagine di un testo si avvale di tutto il suo bagaglio culturale, ma la spinge sempre ad acquisirne del nuovo, un bagaglio che non pesa, sorprendentemente, ma che crea spazio per sistemarci dentro un altro tratto di esperienza.

E Olga, in questo viaggio, è stata una compagna divertente.

Giuseppina Oneto 

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