La traduttrice Francesca Frigerio racconta la sua esperienza con la traduzione di «Quel prodigio di Harriet Hume», romanzo di Rebecca West.
Quello tra me e Rebecca West è senza alcun dubbio un matrimonio d’amore. Non so se anche lei lo avrebbe definito così, vista la diffidenza che le ispirava l’istituto matrimoniale, diffidenza così radicata da ispirarle un pamphlet dal titolo inequivocabile: I regard marriage with fear and horror. Poco male. Le sono fedele da quindici anni, che non è poco con i tempi che corrono. Ho tradotto e continuo a tradurre altri autori e autrici, ma il grande amore resta sempre lei, nonostante i momenti di crisi propri di ogni matrimonio che si rispetti. Capita che uno di quei suoi periodi lunghissimi, di quelli che ti fanno arrivare in fondo senza quasi più fiato in gola, richiedano di essere rivisti tre, quattro, cinque volte, prima di poter arrivare a credere (o a illudersi?) di aver trovato una resa italiana capace di catturare il lettore italiano con la stessa forza dell’originale, trascinandolo fino al tanto sospirato punto per poi inchiodarlo lì, a chiedersi dove mai andasse a pescare certe soluzioni sintattiche quel prodigio di Rebecca West. O che un aggettivo, uno di quegli aggettivi che sembrano buttati lì quasi senza pensarci, siano la chiave per accedere a un personaggio e afferrare in un attimo il senso della sua vita romanzesca. E allora perdi un’ora buona a scartabellare tra i sinonimi che hai collezionato in anni di traduzioni, chiedendoti come sia possibile che nessuno dei vocaboli che scrivi e subito cancelli riesca a cogliere proprio quella sfumatura. Quel timbro. Quell’impercettibile inclinazione della luce che sola può illuminare la pagina così come l’aveva concepita lei.
Harriet Hume e il suo mondo strampalato e tremendamente seducente non hanno fatto eccezione. Abbiamo litigato, sbattuto porte, urlato frasi che poi avremmo voluto rimangiare, ma ci siamo amate e continuiamo ad amarci di un amore profondo. Posso confessare, ora che ho congedato la traduzione, che si tratta del romanzo che amo di più, tra gli otto che Rebecca West è riuscita a dare alle stampe, e che non vedevo l’ora di tradurre, pur sapendo che la mia pazienza e la mia devozione sarebbero state messe a dura prova.
Già, perché Harriet non assomiglia a nessun’altra donna, dunque parla, pensa, piange, cammina, si veste, mangia, come nessun’altra donna. E sono soprattutto i dettagli, quelle impercettibili sfumature delle quali si parlava prima, che ce la restituiscono nella sua unicità. E ci restituiscono l’unicità del capriccio londinese immaginato per noi da Rebecca West, che amava Londra come Harriet ama le ciliegie, mangiandole direttamente dal sacchetto per poi appenderle ai cancelli di Portland Place. Le ciliegie più gustose, rosse e rotonde del mondo, lo ammette anche quello spocchioso di Arnold.
Il romanzo vive di queste minuzie nella sua stessa struttura narrativa, perché è costruito come una sequenza di cinque tableaux vivants che procedono per piccoli scarti. Le ciliegie, per l’appunto. È costruito sulla successione di cinque scene, cinque incontri tra Arnold e Harriet che avvengono nei giardini e per le vie di Londra in stagioni diverse e a distanza di anni. Quadri in cui apparentemente nulla accade, eppure ogni volta il semplice slittamento di alcuni dettagli, come l’ora del giorno o l’abito di Harriet, il quartiere o il colore delle foglie degli alberi è sufficiente per imprimere una progressione alla vicenda. Sono scene minute, simili ai dipinti di Vermeer che West cita in un saggio coevo al romanzo nel quale riporta le impressioni ricavate da una visita a una mostra sulla pittura fiamminga. Quelle tele la colpiscono proprio per la loro straordinaria capacità di rendere “the minute and modest renderings of simple things, incomputably precious”, come la concentrazione di luce e colore delle pozzanghere che si formano ai lati della strada quando ha appena finito di piovere.
Ecco: quando il traduttore incontra quelle pozzanghere, ci deve saltare dentro senza timore di inzaccherarsi. Deve dedicare alla luce e al prisma dei colori riflessi sulla superficie dell’acqua la stessa attenzione che ha dedicato loro Rebecca West, altrimenti finisce, e con lui il lettore, per smarrirsi per le strade del testo. Proprio come accade al povero Arnold, che nell’ultima delle sue passeggiate metropolitane perde completamente le coordinate spazio-temporali e si ritrova a fare i conti con la sensazione straniante di muoversi in tondo. Solo il giardino di Harriet può salvarlo ed è bene che il traduttore segua le sue orme, concedendosi il lusso di sfogliare inutilmente un dizionario botanico per trovare il nome di quel fiore che cresce solo lì. E poi annusarlo, cercando di ricordare in quale altro luogo aveva sentito quel profumo. O dove mai aveva visto petali di quel blu traslucido che pare di un altro mondo. Il mondo di Rebecca West.
Francesca Frigerio