Isabella Zani, traduttrice di Schiavi della solitudine, ci racconta il processo di traduzione del romanzo di Patrick Hamilton, autore del Novecento inglese da riscoprire, amato da scrittori come Graham Greene, Doris Lessing e Nick Hornby.
Questo romanzo appare oggi in versione italiana, ma è stato tradotto nei mesi del lockdown da Covid-19 e consegnato nella tardissima primavera del 2020. Vale a dire nel primo periodo in cui, pur disorientati nel labirinto di limitazioni e divieti, in mezzo a mascherine, tamponi nasali e distinguo tra «affetti stabili» o meno, ricominciavamo a uscire di casa e provavamo a convivere con la pandemia nell’attesa di un vaccino promesso ma non ancora disponibile.
La coincidenza è del tutto casuale, dato che la traduzione mi era stata affidata nell’autunno del 2019, quando nessuno immaginava che cosa sarebbe capitato di lì a pochi mesi: ma vista adesso crea una sorta di parallelismo, che spero non risulti irrispettoso, con lo scenario di guerra che fa da sfondo al romanzo stesso, completato nel 1946 e ambientato alla fine del 1943. Come i personaggi del libro si preoccupano per sé e per altri, esposti soprattutto al pericolo dei bombardamenti «…nel grigio, morto inverno della più mortale fase della più mortale guerra della Storia», chiusa in casa a tradurre io temevo per la sorte di famigliari e amici lontani e per giunta residenti nelle province lombarde in cui il contagio infuriava più che altrove; e allo stesso modo, come protagonisti e comprimari sono accomunati dall’angosciante sensazione che la guerra non finirà mai («Una volta c’è stata una Guerra dei trent’anni, no? Una Guerra dei cent’anni… perché non dovrebbe toccare anche a noi?»), anch’io come tutti trascorrevo le giornate senza intravedere l’orizzonte in cui il confinamento sarebbe terminato e la vita quotidiana avrebbe recuperato una cornice di normalità. Fatte le debite proporzioni, anche nel romanzo come all’esordio della pandemia gli scaffali dei negozi si vanno svuotando; la gente vive nell’obbligo dell’oscuramento notturno come a noi toccò il coprifuoco serale; e soprattutto parla dell’evento di cui è suo malgrado protagonista senza però comprenderlo in ogni risvolto e poterne misurare le conseguenze. Analogie di cui in parte mi accorgo solo adesso, ad anni di distanza dai fatti, ma che rendono questo lavoro di traduzione indimenticabile per motivi che vanno oltre il chiaro merito letterario del testo.
Al tempo stesso, in quella «grigia, morta» primavera del 2020 mettermi al lavoro ogni giorno per dare voce in italiano agli Schiavi della solitudine mi è stato di rifugio e consolazione. Certo, alla cupezza della realtà intorno a me corrispondeva la cupezza della realtà in cui Hamilton immerge il suo cast di personaggi sradicati, stagionati, smarriti, solitari e schivi, alla deriva tra le privazioni del presente e l’incertezza del futuro e perciò aggrappati come naufraghi agli ultimi vestigi del decoro e del rispetto di sé. Ma a ognuno di loro la penna dell’autore dona, anche con pochi tratti, una personalità precisa e riconoscibile, e soprattutto a Mr Thwaites – spettacolare eccezione alla mite passività degli altri ospiti della pensione Rosamund Tea Rooms – regala un carattere malvagio senza mezzi termini, sinistro ma anche irresistibilmente comico nella sua assurdità. Thwaites è un bullo, per non dire un sadico, che gode nel torturare psicologicamente il prossimo: e lo fa attraverso un linguaggio che con oscuri riferimenti proverbiali, ripetizioni martellanti, insinuazioni anche contraddittorie ma sempre malevole, e arcaismi dall’effetto ridicolo e patetico insieme, mescola pomposamente snobismo e cattiveria in una maniera che suona naturale in bocca al personaggio ma che da parte di Hamilton costituisce un’invenzione acrobatica. Con la stessa perizia l’autore tratteggia l’altro personaggio «eccezionale» del romanzo, la profuga di incerte origini ma di certissima perfidia Vicki Kugelmann, attribuendole, insieme a una peculiare gestualità, una lingua a tratti superata e a tratti imbarazzante – per esempio quando vorrebbe emulare certe espressioni appena sbarcate sul suolo inglese insieme ai militari americani che punteggiano la scena.
A questa pluralità espressiva così ben concepita e realizzata da Patrick Hamilton spero di aver reso giustizia, e mi auguro che numerosi lettori possano fare come me la scoperta di un autore non più così vicino nel tempo, ma dall’indubbio talento narrativo.
Isabella Zani